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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 28 aprile 2025

Diritto della concorrenza - Italia / Relazione annuale dell’AGCM – L’Autorità ha pubblicato la relazione sull’attività svolta nel 2024

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha recentemente presentato la propria Relazione annuale sull’attività svolta, relativa all’anno 2024 (la Relazione), nell’ambito della quale ha toccato alcuni temi commentati qui di seguito.

L’AGCM segnala innanzitutto la propria consapevolezza rispetto alle tensioni geopolitiche e le spinte protezionistiche che stanno attraversando i mercati globali. Con riferimento all’attuale dibattito sulla competitività dell’Unione europea, l’AGCM prende atto che sempre più voci suggeriscono di bilanciare, da una parte, gli obiettivi di politica industriale e la necessità di conseguire economie di scala, e, dall’altra, il mantenimento delle condizioni di concorrenza nel mercato.

Tuttavia, l’AGCM aggiunge anche che non vede motivi per giustificare un eventuale allentamento delle maglie dell’antitrust e che una maggiore valutazione dell’impatto di una condotta e/o di una operazione sull’innovazione, sia in termini accusatori sia come c.d. “innovation defence”, è già pienamente sufficiente a garantire tale bilanciamento.

La Relazione riporta che l’AGCM, nel 2024, ha concluso 40 procedimenti istruttori ai sensi della normativa a tutela della concorrenza, accanto a 118 interventi consultivi e di segnalazione, questi ultimi cresciuti più del doppio rispetto all’anno precedente e prevalentemente destinati ad attività di advocacy nei confronti di alle amministrazioni locali. Sono invece diminuiti i procedimenti chiusi relativi a intese (dagli 8 del 2023 ai 2 del 2024), mentre sono aumentate le c.d. fasi 2 in materia concentrazioni (da 1 a 6).

Sempre in merito alle concentrazioni, l’AGCM ha esercitato in 7 casi il potere di richiedere la notifica di un’operazione sotto-soglia (c.d. call-in). In 6 casi su 7, le imprese interessate avevano superato una delle due soglie di fatturato previste dall’articolo 16, comma 1 della legge 287/1990; nel settimo caso, il fatturato totale mondiale di una delle due imprese era risultato maggiore dei 5 miliardi di cui al comma 1-bis del medesimo articolo.

Anche le rideterminazioni delle sanzioni in sede giurisdizionale sono aumentate, passando da 1 a 18, segnalando probabilmente una più frequente soccombenza – quantomeno parziale – dell’AGCM dinanzi alla giustizia amministrativa.

Nel complesso, nel 2024, l’AGCM ha irrogato più di 9,5 milioni di euro di sanzioni per violazioni delle norme antitrust. Ammontano invece a più di 9 miliardi i risparmi – in termini di minori costi di cui i consumatori hanno beneficiato a seguito dell’intervento dell’AGCM, che ha posto fine a condotte restrittive o ha impedito o corretto concentrazioni anti-competitive –  che si ritiene siano stati conseguiti dai consumatori nel periodo 2015-2024 che, secondo l’analisi d’impatto condotta dall’AGCM, dipenderebbero dall’attività di quest’ultima nell’ambito della tutela della concorrenza. Come per il 2022 e il 2023, i risparmi conseguiti nel 2024 (760 milioni di euro) si mantengono decisamente inferiori rispetto a quelli raggiunti nel 2019 (1,7 miliardi) e nel 2022 (1,6 miliardi).

Infine, nel 2024, nell’ambito della tutela dei consumatori, l’AGCM ha concluso 56 procedimenti istruttori, a cui si aggiungono altri 68 casi in cui l’AGCM ha fatto ricorso allo strumento della moral suasion. In esito a 36 dei 56 procedimenti menzionati, l’AGCM ha irrogato sanzioni per più di 74 milioni di euro, di cui più di 55 milioni solo per pratiche commerciali scorrette. Dominano tali statistiche i settori dei trasporti, energia, ambiente, piattaforme digitali e comunicazioni, entro cui si collocano oltre la metà delle imprese sanzionate. L’incidenza dei procedimenti avviati e chiusi con impegni nel 2024 in materia di tutela dei consumatori (pari al 30,4% del totale) si conferma stabile rispetto al quinquennio appena trascorso, sebbene in calo rispetto al 53,5% del 2023.

Riccardo Ciani

Abusi e settore dei beni di largo consumo – Il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile la revocazione proposta da Unilever nei confronti della sentenza che confermava l’esistenza di un abuso di posizione dominante da parte della società

Con la sentenza del 14 aprile 2025, il Consiglio di Stato (CdS) ha dichiarato inammissibile l’istanza di revocazione contro una precedente sentenza dello stesso CdS che aveva confermato il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) contro Unilever Mkt. Operations S.r.l. (Unilever) per un abuso di posizione dominante in violazione dell’articolo 102 TFUE (il Provvedimento).

Come evidenziato nel Provvedimento, Unilever aveva posto in essere una strategia escludente mediante la richiesta di inserimento, nei contratti fra i concessionari di gelati Unilever e i rispettivi gestori dei punti vendita, di clausole di esclusiva merceologica a rifornirsi presso Unilever per l’intero fabbisogno di gelati in confezioni individuali, in cambio della concessione di un’articolata pratica scontistica che – secondo l’AGCM – avrebbe prodotto l’effetto fidelizzante.

La società Unilever aveva impugnato il Provvedimento, ma il CdS, anche a seguito di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (CGUE) – già oggetto di commento in questa Newsletter – ne ha confermato la legittimità. La società ha quindi promosso un giudizio di revocazione contro la sentenza del CdS, prospettando la sussistenza di alcuni errori revocatori ai sensi dell’articolo 395, n. 4 del Codice di procedura civile.

In primo luogo, secondo Unilever, il CdS non avrebbe correttamente percepito il contenuto letterale della sentenza Unilever della CGUE  – adottata in sede di rinvio pregiudiziale dal CdS durante il giudizio di appello. In particolare, il CdS non avrebbe correttamente compreso il principio espresso dalla CGUE relativo all’attribuibilità a un’impresa in posizione dominante di un comportamento materialmente posto in essere da un intermediario rientrante nella propria rete di distribuzione. La CGUE aveva infatti affermato che la riferibilità del comportamento all’impresa in posizione dominante fosse ancorata alla dimostrazione che la politica commerciale praticata dal distributore rappresentasse il risultato del mero adeguamento alle direttive e istruzioni impartite dall’impresa stessa, senza che il distributore disponga di una piena autonomia o possibilità di scostamento, indipendentemente dalla (superflua) verifica che le due imprese costituiscano o meno un’unica entità economica alla luce dell’intensità dei vincoli economici, organizzativi e giuridici tra di esse.

Secondo Unilever, tale interpretazione non includeva il costrutto logico secondo cui la responsabilità di una pratica eseguita dai propri distributori fosse riferibile all’impresa dominante sulla base del concetto di singola entità economica (ricostruzione concettuale essenziale nel ragionamento dell’AGCM, confermato nei due gradi di giudizio).

In secondo luogo, Unilever ha contestato che il CdS avrebbe ricostruito in modo errato il rapporto tra Unilever e i propri concessionari ed avrebbe omesso di considerare la mancata analisi da parte dell’AGCM degli studi economici riprodotti da Unilever. Infatti, secondo Unilever, tali rapporti, lungi dal costituire precondizione per l’imposizione delle condizioni contrattuali da applicare ai rapporti con i terzi rivenditori, sarebbero stati smentiti da documenti istruttori volti a verificare positivamente il grado di autonomia di tali operatori.

In terzo luogo, Unilever ha prospettato che il CdS aveva errato anche in merito alla pertinenza del “as efficient competitor” test (AEC Test) alle valutazioni finali. In tali valutazioni, l’AEC Test non era stato pienamente preso in considerazione, sul presupposto che fornisse un riscontro circoscritto a talune pratiche, inidoneo a verificare la replicabilità di tutte le condotte imputate alla parte (che si estendevano ben oltre la scontistica, inglobando ad esempio anche le esclusive).

Il CdS ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione. Pur fornendo una breve valutazione a conferma della correttezza del percorso logico messo in discussione nei diversi motivi di ricorso, il CdS ha evidenziato che nessuno dei motivi di ricorsi era riconducibile al concetto di errore percettivo di cui all’articolo 395, n. 4 del Codice di procedura civile.

Infatti, richiamando la giurisprudenza consolidata sul punto, il CdS ha segnalato che l’errore cui si riferisce tale norma riguarda il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività, la cui evidenza è tale da poter affermare che il giudice sia incorso in un “abbaglio dei sensi”, supponendo un fatto la cui sussistenza è incontrastabilmente esclusa, ovvero affermando l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente accertata. Invece, le censure mosse da Unilever richiamerebbero, di contro, principalmente degli errores in iudicando, non investendo il momento di osservazione della realtà, quanto piuttosto il successivo momento interpretativo e valutativo, non contestabile tramite lo strumento della revocazione.

Il CdS si è infine soffermato sulla correttezza e piena coerenza di tale linea con la giurisprudenza europea. Infatti, si precisa come nella sentenza della CGUE Hoffmann-La Roche Ltd e Altri c. AGCM del luglio 2022 è stata riconosciuta la compatibilità con il diritto unionale del sistema italiano, laddove esso esclude la praticabilità del rimedio della revocazione avverso sentenze di un giudice di ultima istanza che abbiano violato l’interpretazione del diritto europeo fornita dalla CGUE in sede di rinvio pregiudiziale.

Maria Elena Ardita

Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore energetico – Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello di Olimpia contro una sanzione dell’AGCM da 1 milione di euro per inottemperanza agli impegni assunti

Il 22 aprile 2025, il Consiglio di Stato (CdS) ha respinto l’appello presentato dalla società Olimpia S.r.l. (Olimpia) per la riforma di una sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio) che aveva confermato la sanzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti di Olimpia per non aver rispettato gli impegni assunti nel contesto di un’indagine per pratiche commerciali scorrette.

L’AGCM, a seguito di varie segnalazioni riguardanti il perdurare delle condotte già contestate, aveva infatti deciso, da un lato, di riaprire il procedimento che si era chiuso con l’accettazione degli impegni proposti e, dall’altro, di aprirne uno ulteriore riguardante specificatamente l’inottemperanza di Olimpia.

Le condotte originariamente contestate – e non più perseguite a valle dell’accettazione degli impegni – consistevano sostanzialmente nell’omissione di informazioni rilevanti sugli importi da pagare, oltre che l’addebito di costi di origine poco chiara in relazione ai servizi offerti. Gli impegni che avevano permesso la chiusura dell’istruttoria si erano focalizzati sul rappresentare chiaramente al consumatore le caratteristiche dell’offerta nei contratti conclusi telefonicamente, fornire la documentazione adeguata, informare i clienti sulla possibile restituzione degli oneri relativi alla bollettazione cartacea e, infine, predisporre un sistema di assistenza dedicato. Il procedimento per inottemperanza si è chiuso con la sanzione da 1 milione di euro nei confronti di Olimpia, ed è proprio quest’ultimo ad essere stato impugnato.

Dopo che il TAR Lazio aveva respinto il ricorso avverso tale sanzione, Olimpia ha presentato appello al CdS perché riteneva che fossero stati compiuti degli errori (i) sulla valutazione degli impegni attuati, (ii) sul calcolo dell’ammontare della sanzione e (iii) rispetto all’osservanza dei principi di legalità e di ne bis in idem.

Sotto il profilo degli impegni attuati, il CdS ha confermato quanto stabilito dal TAR Lazio, ritenendo che le misure adottate fossero insufficienti, o comunque tardivamente applicate. Ciò in quanto l’asimmetria informativa persisteva sotto molteplici aspetti, oltre al fatto che non era stato istituito un apposito servizio di assistenza telefonica per risolvere le problematiche relative alla fatturazione.

Sul tema della sanzione irrogata, la sanzione di 1 milione di euro sarebbe equivalente a poco più dell’1% dei ricavi di Olimpia, oltre che essere pari ad un quinto del massimo edittale, come previsto dall’articolo 27, comma 12 del decreto legislativo 206/2005 (Codice del consumo). Per queste ragioni il CdS ha ritenuto proporzionata la sanzione.

Il CdS ha inoltre dovuto esaminare alcune questioni sulla presunta violazione di principi cardine del nostro ordinamento, in particolare il principio di legalità e quello del ne bis in idem. Per Olimpia, il fatto che ci fossero due procedimenti paralleli con ad oggetto le stesse condotte realizzate nel medesimo periodo temporale avrebbe violato questi principi. Olimpia riteneva inoltre che l’articolo 9 del Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di tutela del consumatore fosse illegittimo, in quanto permette di riaprire un procedimento originariamente chiuso, asseritamente violando l’articolo 27 del Codice del consumo, riguardante la competenza ed i poteri dell’AGCM in tema di pratiche commerciali scorrette.

Il CdS, al contrario, adottando un approccio non immediatamente condivisibile, ha affermato come un processo chiuso con l’accettazione degli impegni presentati da una società non permetta di accertare la correttezza o meno delle condotte contestate. Per tale motivo, le norme richiamate sono “…alternative e quindi cumulabili”. Sulla scorta di questa lettura, il CdS ha ritenuto che la legge stessa consenta all’AGCM di aprire due procedimenti paralleli, sottolineando come tali indagini (rispettivamente, di eventuale accertamento di una pratica commerciale scorretta già indagata attraverso un procedimento chiuso con impegni; e di accertamento della mancata osservazione di siffatti impegni) siano diverse e non sovrapponibili. Ciò non tenendo conto del fatto che, se gli impegni erano stati ritenuti assorbenti le criticità concorrenziali sottese all’avvio, il perseguire separatamente sia il mancato rispetto degli impegni, sia le criticità sottostanti appare cozzare anche contro la logica degli impegni stessi.

In conclusione, la sentenza in commento afferma il principio che, qualora una società non rispetti gli impegni assunti nei confronti dell’AGCM per chiudere un procedimento per asserita violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette, essa dovrà tenere in conto che potrà essere potenzialmente passibile di due procedimenti distinti: uno relativo alla (nuova) valutazione delle condotte contestate, ed un altro di inottemperanza, con la conseguenza di un moltiplicarsi esponenziale della potenziale responsabilità per quella che è sostanzialmente la medesima condotta.

Giacomo Perrotta

Appalti, concessioni e regolazione / Tutela paesaggistica e settore delle rinnovabili – Nel valutare se l’installazione di pannelli fotovoltaici danneggi il paesaggio, l’amministrazione non può limitarsi ad applicare categorie estetiche tradizionali, ma deve prendere in considerazione le modalità di realizzazione in concreto

Con la sentenza del 2 aprile 2025, il Consiglio di Stato (CdS) ha statuito che le esigenze di tutela paesaggistica non possono escludere in maniera assoluta l’installazione dei pannelli fotovoltaici nelle zone sottoposte a vincolo. In particolare, il CdS ha sottolineato che l’attenzione dell’amministrazione si deve concentrare su modalità di realizzazione in grado di contemperare i contrapposti interessi pubblici in gioco.

Nel gennaio 2021, due soggetti privati (i Ricorrenti) hanno chiesto al Comune di Firenze (il Comune) l’autorizzazione paesaggistica all’installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto della loro proprietà. Infatti, l’immobile dei Ricorrenti è ubicato in un’area del Comune soggetta a vincolo paesaggistico per la vicinanza ad una villa Medicea e ad altri luoghi monumentali e di interesse storico.

Nel contesto della procedura per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, il Comune ha richiesto il parere obbligatorio vincolante delle Soprintendenza. Nel marzo 2021, quest’ultima ha dato parere negativo a causa dell’estraneità e dell’incompatibilità dei pannelli fotovoltaici con il contesto di riferimento, confermato poi in sede di riesame.

Nel settembre 2021, pertanto, i Ricorrenti hanno presentato una nuova istanza, corredata da un progetto tecnico meno intrusivo, volto all’assorbimento visivo dei pannelli fotovoltaici nel tetto dell’edificio attraverso una colorazione simile.

Il Comune ha tuttavia respinto la nuova istanza, facendo esplicito riferimento al parere della Soprintendenza adottato nel corso del procedimento precedente. I Ricorrenti hanno presentato ricorso al TAR Toscana, che lo ha tuttavia rigettato. Pertanto, i Ricorrenti hanno fatto appello al CdS.

Il CdS ha accolto l’appello e annullato il provvedimento di diniego impugnato.

In primo luogo, il CdS ha sottolineato come il parere della Soprintendenza utilizzato dal Comune per respingere il ricorso non fosse in realtà pertinente, riferendosi ad un progetto (più intrusivo) successivamente emendato in sede di seconda istanza.

In secondo luogo, il CdS ha rilevato la totale mancanza di un contemperamento fra l’interesse alla tutela del paesaggio e quello allo sviluppo delle energie rinnovabili. Si tratta, ad avviso del CdS, di due interessi di natura pubblicistica, dove il secondo non è riducibile al solo interesse privato a migliorare la sua proprietà, ma costituisce un “obiettivo di interesse nazionale”.

Alla luce della sempre maggior importanza attribuita allo sviluppo delle rinnovabili in Italia, il CdS ha statuito che non si possano più applicare ai pannelli fotovoltaici “categorie estetiche tradizionali” che condurrebbero inevitabilmente a qualificare questi ultimi come intrusioni nel tessuto urbano. Non è dunque più possibile qualificare i pannelli fotovoltaici come un fattore di disturbo visivo assoluto. Semmai, sarà necessario effettuare un bilanciamento degli interessi pubblici in gioco a livello delle modalità di realizzazione.

In terzo e ultimo luogo, il CdS ha anche censurato il fatto che il Comune non si fosse conformato al principio del “dissenso costruttivo”, che obbliga l’amministrazione che respinge l’istanza di autorizzazione paesaggistica a fornire suggerimenti in merito a possibili alternative progettuali. Tale obbligo positivo è tanto più forte nella misura in cui l’opera in questione è anche opera di pubblica utilità.

Massimiliano Gelmi

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