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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Abuso di posizione dominante e scontistica – Secondo il Tribunale dell’UE la Commissione non aveva dimostrato in modo sufficiente che il sistema di sconti di Intel era idoneo a produrre effetti anticoncorrenziali

Con la sentenza del 26 gennaio 2022 il Tribunale dell’UE (Tribunale) ha annullato in larga parte la decisione della Commissione europea (Commissione) che aveva sanzionato Intel per oltre 1 miliardo di euro per preteso abuso di posizione dominante. Una vittoria storica: il Tribunale, pronunciandosi su una delle questioni più dibattute nel panorama antitrust (ossia il ruolo dell’analisi economica nel valutare gli effetti dei pretesi abusi di posizione dominante), ha azzerato in toto la sanzione imposta dalla Commissione (al tempo la più alta mai irrogata ad una impresa) ed ha fornito importanti indicazioni sullo standard di prova richiesto a quest’ultima.

Ripercorrendo brevemente i fatti, nel 2009 la Commissione aveva sanzionato Intel per aver posto in essere due pratiche ritenute parte di un unico disegno abusivo volto ad escludere il suo unico concorrente, AMD, dal mercato dei processori “x86”. Trattavasi di: (i) sconti e/o pagamenti a quattro grandi produttori di computer condizionati al fatto che si rifornissero da Intel per tutto (o quasi tutto) il loro fabbisogno di processori x86; e (ii) pagamenti volti a ritardare o non procedere con il lancio di prodotti contenenti processori x86 di AMD. Intel aveva impugnato la decisione ma il suo ricorso era stato respinto dal Tribunale. La vicenda era quindi giunta dinanzi alla Corte di Giustizia (CdG) che, nel 2017, aveva rilevato l’errore del Tribunale nell’aver confermato la premessa su cui si era basato l’intero ragionamento della Commissione, ossia che gli sconti-fedeltà in parola avessero, per loro stessa natura, la capacità di restringere la concorrenza, così che non era necessaria un’analisi di tutte le circostanze del caso di specie e, in particolare, soddisfare il c.d. “as efficient competitor test” (AEC, volto a verificare la capacità di un concorrente altrettanto efficiente di poter replicare la condotta sotto scrutinio senza incorrere in perdite). Dato che la Commissione aveva però scelto di effettuare un test AEC e questo aveva giocato un ruolo importante nella valutazione, secondo la CdG il Tribunale era tenuto ad esaminare tutti gli argomenti formulati da Intel al riguardo – cosa che invece si era astenuto dal fare. Pertanto, la CdG aveva annullato e rinviato la causa al Tribunale affinché esaminasse, anche alla luce degli argomenti dedotti da Intel, la capacità degli sconti controversi di restringere la concorrenza.

Con la sentenza in commento, il Tribunale ha concluso che il test AEC condotto dalla Commissione fosse viziato da molteplici errori e che la sua analisi fosse stata incompleta e tale da non permettere di dimostrare l’idoneità degli sconti in questione a produrre effetti anticoncorrenziali.

In via preliminare, il Tribunale ricorda che, sebbene un sistema di sconti di esclusiva/quasi-esclusiva posto in essere da un’impresa dominante possa essere qualificato come restrizione della concorrenza, trattasi di una presunzione semplice, che non può esonerare la Commissione dall’esame degli effetti anticoncorrenziali qualora vengano presentati elementi di prova a confutazione della capacità della condotta di restringere la concorrenza. Nell’ambito di tale analisi, alla Commissione è richiesto di analizzare come minimo i criteri delineati dalla sentenza della CdG di annullamento con rinvio, ossia il grado di potere di mercato dell’impresa in posizione dominante, la quota di mercato interessata dalla pratica in analisi, le condizioni e modalità di concessione degli sconti, la loro durata e il loro importo, nonché l’eventuale esistenza di una strategia diretta ad escludere dal mercato i concorrenti altrettanto efficienti. Inoltre, con un ragionamento non interamente lineare, anche se la Commissione non è obbligata a condurre un test AEC, quando lo effettua esso diviene parte degli elementi da prendere in considerazione nel valutare la capacità escludente degli sconti. In tale contesto, il principio della presunzione d'innocenza impone alla Commissione di dimostrare l’esistenza di un’infrazione mediante un insieme di indizi precisi e concordanti, in modo da non lasciare sussistere dubbi al riguardo.

Poste tali basi, il Tribunale ha proceduto a prima esaminare gli argomenti relativi agli errori che la Commissione avrebbe commesso nella sua analisi AEC, per poi verificare se la stessa avesse tenuto debitamente conto di tutti i criteri delineati dalla CdG. Il Tribunale si è così “sporcato le mani” analizzando in dettaglio i documenti e le informazioni utilizzate dalla Commissione nel proprio impianto accusatorio, il loro valore probatorio e le contro-argomentazioni addotte da Intel durante l’indagine, rilevando una serie di errori metodologici, contraddizioni e l’esistenza di una motivazione insufficiente per dimostrare la capacità escludente degli sconti offerti da Intel durante l’intero periodo della pretesa infrazione. Il Tribunale ha quindi rilevato che la Commissione non aveva debitamente esaminato i criteri relativi alla quota di mercato coperta dagli sconti e della loro durata. Pertanto, l’analisi della Commissione era incompleta e, per l’effetto, il Tribunale ha annullato interamente la sanzione al tempo imposta dalla Commissione.

La sentenza in commento si pone in linea di continuità con le recenti pronunce che hanno chiarito la necessità per la Commissione di verificare la capacità escludente di un’asserita condotta abusiva (in ultimo le conclusioni dell’AG Rantos nel caso Enel) e sembra ribadire l’alto standard probatorio che la Commissione deve soddisfare per accertare un abuso. Da un lato, forse, una buona notizia per le imprese che potrebbero ragionevolmente attendersi la necessità per la Commissione, e di riflesso per le autorità nazionali a tutela della concorrenza, di considerare in dettaglio le argomentazioni e analisi economiche che vorranno presentare a confutazione della capacità escludente di una loro condotta. Dall’altro, rimane un punto di domanda sul ruolo ed il peso probatorio che continuerà ad avere il test AEC nel contesto di un’indagine antitrust.

Nel frattempo, sarà interessante vedere se e come la sentenza in commento influirà sulle vicende Google Shopping e Qualcomm, che pendono su simili questioni di diritto. 

Cecilia Carli

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Concentrazioni e settore digitale – La Commissione approva l’acquisizione di Kustomer da parte di Meta, subordinatamente all’assunzione di impegni comportamentali

Con un comunicato stampa pubblicato il 27 gennaio, la Commissione Europea (la Commissione) ha annunciato di aver approvato, con condizioni, l’acquisizione della società Kustomer Inc. (Kustomer) da parte di Meta Platforms Inc. (Meta), precedentemente nota come Facebook. Questo procedimento ha avuto inizio da una richiesta di rinvio avanzata alla Commissione dall’Austria, cui si è poi aggiunta quella anche da altri Stati Membri tra cui l’Italia, nell’aprile 2021.

La target dell’acquisizione è una piccola impresa che opera nel mercato dei software per la gestione delle relazioni coi clienti, i.e.customer relationship management” (CMR), ossia software che offrono, alle aziende clienti, servizi utilizzati per creare un coinvolgimento del consumatore finale, dandogli la possibilità di porre domande e ricevere consigli e aiuti nella risoluzione dei problemi. Meta non si occupa di questo genere di servizi ma le sue principali piattaforme di messaggistica, Messenger, WhatsApp e Instagram, fungono in realtà da “punto di partenza” per le società che si occupano di fornire servizi CMR in quanto consentono una comunicazione diretta tra le aziende clienti e i consumatori. Da ciò le preoccupazioni della Commissione Europea, riguardanti soprattutto la possibilità che questa acquisizione avrebbe avuto effetti negativi su ben due mercati:

  • il mercato della fornitura di software CMR; e
  • il mercato dei servizi pubblicitari online.

La Commissione temeva che Meta, avendone la capacità e gli incentivi, avrebbe potuto impedire o rendere più difficoltoso ai concorrenti di Kustomer l’accesso alle sopra citate piattaforme di messaggistica, impedendo di fatto agli altri soggetti operanti sul mercato di accedere a tre tra i più importanti mezzi di comunicazione tra imprese e clienti.

La seconda preoccupazione, quella riguardante la fornitura dei servizi pubblicitari online, per la quale la Commissione aveva sollevato un interesse preliminare, si è rilevata in realtà infondata per la natura stessa del servizio offerto da Kustomer e per il fatto che i dati che Meta potrebbe ottenere dai clienti della società sono in realtà marginali in quanto essa offre un servizio business-to-business e un eventuale accesso ai dati delle imprese clienti è, in realtà, condizionato dal consenso a valle del consumatore. Il rischio che le società concorrenti a Meta nel mercato della fornitura di questi servizi abbiano, a seguito dell’acquisizione, un accesso ridotto ai dati delle imprese clienti si è rilevato infondato, in quanto le imprese sono tendenzialmente attive su più piattaforme per poter ottimizzare le proprie campagne pubblicitarie.

Le condizioni alle quali la Commissione ha accettato l’operazione sono state proposte dalla stessa Meta e riguardano principalmente l’accesso incondizionato alle piattaforme di messaggistica e ai loro relativi upgrade, senza costi, né discriminazioni. La durata di questi impegni è stata fissata per un periodo di dieci anni e la Commissione designerà un garante affinché monitori l’esecuzione e la continua attuazione degli stessi.

La decisione è particolarmente interessante su due fronti. In primis, perché dimostra che nonostante la sua maggiore attenzione e severità nei confronti delle operazioni legate ai mercati digitali, la Commissione non è restia ad accettare rimedi comportamentali volti all’eliminazione dei profili anticompetitivi, come peraltro accaduto quando, nel dicembre 2020, aveva approvato con condizioni legate all’accesso e all’utilizzo dei dati personali degli utenti, l’acquisizione della società Fitbit da parte di Google. Il secondo profilo di interesse è invece legato alla Germania, che non si è unita alla richiesta di rinvio alla Commissione dell’aprile scorso ed ha invece deciso di proseguire in maniera indipendente e parallela la propria analisi dell’operazione in oggetto.

Sulla stessa operazione, infatti, è in corso l’analisi dell’Autorità della concorrenza e del mercato tedesca (Bundeskartellamnt), annunciata con il comunicato stampa nel luglio 2021, ed ora alle sue battute finali, posto che il termine ultimo per la conclusione del procedimento è fissato per l’11 febbraio prossimo. Sarà certamente molto interessante osservare a quali conclusioni perverrà il Bundeskartellamnt e se, e come, le stesse saranno in qualche modo in conflitto con quelle prese dalla Commissione Europea (anche considerati i significativi profili di giurisdizione che questa vicenda solleva, dato che – come noto – il principio cardine nel settore delle concentrazioni nella UE è quello dello “one-stop shop”, i.e. l’esame della Commissione esclude quello delle autorità nazionali).

Alessia Delucchi

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Diritto della Concorrenza Italia / Intese e finanziamenti auto – Il Consiglio di Stato respinge il ricorso proposto dall’AGCM rispettivamente contro Ford e Toyota nel procedimento I811 – Finanziamenti Auto

Con le due sentenze adottate il 25 e il 26 gennaio 2022 (le Sentenze), il Consiglio di Stato (CdS) ha rigettato l’appello presentato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti rispettivamente delle società Toyota Motor Corporation (TMC) e Toyota Financial Services Plc (TFS insieme a TMC, Toyota), e Ford Motor Company (Ford), confermando l’annullamento – già disposto dal TAR Lazio (TAR) – della decisione del 20 dicembre 2018 (la Decisione) nel procedimento I811 – Finanziamenti Auto (il Procedimento).

Ad esito del Procedimento, l’AGCM aveva accertato un’intesa illecita nel mercato della vendita delle auto attraverso finanziamenti posta in essere da TFS, Banca PSA Italia S.p.A., BMW Bank GmbH, FCA Bank S.p.A., FCE Bank Plc, General Motors Financial Italia S.p.A. (ora, Opel Finance S.p.A.), Mercedes Benz Financial Services Italia S.p.A., RCI Banque S.A. e Volkswagen Bank GmbH, ossia le banche captive dei principali gruppi automobilistici attivi in Italia (le Captive) anche per il tramite delle associazioni di categoria Associazione italiana leasing e Associazione italiana del credito al consumo e immobiliare (le Associazioni). In applicazione della dottrina della c.d. parental liability – ad avviso di molti, per la prima volta in Italia in assenza di qualsivoglia evidenza di coinvolgimento delle controllanti – la Decisione aveva condannato anche le società madri delle Captive, ossia TMC, Ford, Banque PSA Finance SA, Santander Consumer Bank S.p.A., BMW AG, CA Consumer Finance SA, FCA Italy S.p.A., General Motors Company, Daimler AG, Renault SA e Volkswagen AG (Società Madri). Con la Decisione, pertanto, erano state irrogate alle Captive, in solido con le Società Madri, nonché alle Associazioni, sanzioni complessivamente pari a 678 milioni di euro, con la sola eccezione di Mercedes Benz Financial Services Italia S.p.A. e della sua controllante Daimler AG, che beneficiavano della non imposizione della sanzione in qualità di leniency applicant (i.e. erano state loro a svelare all’AGCM la presunta intesa).

Come sopra indicato, le Sentenze in commento – uguali tra di loro – segnano l’epilogo della vicenda per Toyota e per Ford. Con esse, il CdS ha rigettato l’appello dell’AGCM nei confronti dei giudizi (commentati nella nostra Newsletter del 30 novembre 2020) con cui il TAR aveva annullato la decisione accogliendo i vari ricorsi sia in relazione a profili sia procedurali, sia sostanziali. 
Nel suo appello, l’AGCM ha articolato due motivi di impugnazione: il primo riguarda il travisamento dei fatti nel quale sarebbe incorso il TAR nel valutare come eccessiva la durata dell’attività pre-istruttoria, il secondo invece la definizione del mercato rilevante. Il CdS ha rigettato il primo motivo di appello dell’AGCM, ritenendo ciò sufficiente a confermare l’annullamento del provvedimento, e senza quindi occuparsi del secondo motivo di appello.

Andando più nello specifico, il CdS ha confermato la conclusione del TAR che aveva ritenuto eccessivo il tempo intercorso tra la domanda di clemenza presentata dal leniency applicant (3 marzo 2014) e la data di avvio del Procedimento (28 aprile 2017), in assenza di particolari attività pre-istruttorie svolta dall’AGCM in tale lasso temporale. Nell’appello, la difesa dell’AGCM ha cercato di giustificare il tempo trascorso tra il marzo del 2014 e l’aprile/maggio 2017 in ragione del fatto che fosse “pendente” dinanzi alla Commissione europea (la Commissione) un’altra domanda di clemenza, presentata per gli stessi fatti sempre dalla Daimler nel corso del 2014, e che questa domanda fosse “completa”, a differenza di quella proposta dinanzi all’AGCM, in forma invece “semplificata”.

Su questa duplice “pendenza” e su questa differenziazione nella “forma” della domanda, AGCM costruisce la sua difesa per cui la Commissione avrebbe avuto la priorità nel decidere se procedere e che l’autorità nazionale avrebbe potuto farlo, a sua volta, solo se e quando la Commissione avesse deciso di non procedere. Secondo il CdS, tuttavia, questa tesi – oltre ad essere indebolita dalla carenza di elementi probatori offerti in modo tempestivo dall’AGCM – risulta essere priva di base legale, quantomeno prendendo in considerazione il quadro normativo regolante, al tempo del Procedimento, i rapporti tra la Commissione e le autorità antitrust degli Stati Membri in casi del genere (lacuna, invece, oggi colmata dalla Direttiva ECN+).

Alla luce di ciò, l’inesistenza, sicuramente all’epoca dei fatti, di una preclusione a livello giuridico nei confronti dell’AGCM, a fronte di un’iniziale segnalazione comunque rilevante, e di un coordinamento formale con la Commissione, rende inevitabilmente tardivo l’atto di avvio dell’istruttoria. Secondo il CdS, a tale conclusione si giungerebbe sia ove si riconoscesse applicabile in via diretta nei procedimenti antitrust il termine decadenziale di cui all’art. 14 della l. 689/1981 (che impone la contestazione immediata della violazione al trasgressore e, ove ciò non sia possibile, entro 90 giorni agli interessati residenti in Italia ed entro 360 giorni per quelli residenti all’estero), sia in ogni caso qualora si invocasse un termine appena ragionevole e congruo secondo i principi generali di cui all’art. 6 CEDU e all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali UE sul diritto ad una buona amministrazione. Riporta il CdS che tale ritardo, infatti, non può reputarsi privo di conseguenze, in più di una direzione: “nei confronti delle imprese “incolpate”, nella misura in cui il protrarsi della pratica contestata può avere aggravato la loro posizione, con effetti sia sulla (accresciuta) rilevanza dell’infrazione e quindi sulla conseguente sanzione, che in ordine alla loro esposizione, a valle dell’intesa, ad un numero di cause risarcitorie verosimilmente maggiore; ma anche nella direzione del “mercato”, che da una pratica concordata restrittiva per oggetto può ricevere un pregiudizio ancora maggiore ove l’intervento inibente dell’enforcement pubblico non sia tempestivo”.

Resta ora da vedere se – come prevedibile – il CdS confermerà l’annullamento del provvedimento dell’AGCM anche con riferimento a tutte le altre Captive e Società Madri, annullando definitivamente tutte le sanzioni irrogate dall’AGCM nel caso I811.

Mila Filomena Crispino

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Abusi e settore dell’energia – Il Consiglio di Stato respinge il ricorso di Green Network contro un provvedimento dell’AGCM, confermando l’insussistenza di una politica illecita di winback da parte di Gruppo Enel 

Con la sentenza dello scorso 20 gennaio 2022, il Consiglio di Stato (Consiglio di Stato) ha respinto il ricorso proposto dalla società Green Network S.p.A. (Green Network) per la riforma della sentenza del TAR Lazio, concernente il provvedimento dell’AGCM assunto a conclusione del procedimento A511, nella parte in cui esso: (i) ha negato l’esistenza di un abuso in relazione alle politiche di winback adottate dal Gruppo Enel (Gruppo Enel) ai danni di Green Network; e (ii) non ha ritenuto di dover effettuare un supplemento di istruttoria sul punto.

In particolare, quanto alla politica aggressiva di winback denunciata dalla ricorrente ai suoi danni, dalle evidenze istruttorie non era emerso, secondo l’AGCM, un quadro probatorio sufficiente ad accertare in capo al Gruppo Enel una tale condotta abusiva. Poiché ciò era stato confermato dal giudice di prime cure, Green Network ha richiesto in appello che venisse ordinata all’AGCM la riapertura dell’istruttoria per l’accertamento dell’abuso, ravvisando una carenza dell’attività istruttoria medesima.

Tale domanda della ricorrente è risultata ammissibile, in quanto Green Network è stata qualificata come soggetto legittimamente controinteressato, vale a dire portatore di un interesse particolare e differenziato, leso dalla mancata adozione del provvedimento repressivo da parte dell’AGCM avverso la condotta abusiva contestata nei confronti del Gruppo Enel. Nel caso specifico, la ricorrente aveva richiesto la condanna ad un facere dell’Autorità, in particolare l’ordine di provvedere ad un supplemento di istruttoria relativo al winback, e l’annullamento del provvedimento di archiviazione (i.e. del provvedimento con cui l’Autorità ha escluso la sussistenza della politica di winback da parte del Gruppo Enel).

Da un lato, come precisato dal Consiglio di Stato, data la natura officiosa dei poteri amministrativi (idonei, dunque, ad incidere unilateralmente sulla sfera giuridica altrui), non risulta ammissibile l’ordine all’amministrazione di compiere un’attività avente carattere discrezionale (c.d. azione di adempimento pura). Dall’altro, come stabilito dal Codice del processo amministrativo, il giudice può emanare pronuncia di condanna all’adempimento ricorrendo tre specifici presupposti: (i) la contestuale richiesta di annullamento del provvedimento di archiviazione; (ii) il carattere vincolato in concreto dell’attività amministrativa; (iii) l’assenza di ulteriori incombenti istruttori.

Nel caso specifico, mancavano gli ultimi due presupposti, poiché da un lato l’attività amministrativa in questione aveva pacifica natura discrezionale (c.d. discrezionalità tecnica), dall’altro sussisteva la necessità di ulteriori approfondimenti istruttori, invocati nella stessa domanda della ricorrente. A tale riguardo, secondo il consolidato orientamento ribadito dal Consiglio di Stato, il tipo di sindacato sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione si concretizza – ai fini di una tutela giurisdizionale effettiva – in un controllo sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti e delle operazioni tecniche svolte dall’AGCM, nonché sulla adeguatezza e proporzionalità dell’attività istruttoria compiuta per l’accertamento del winback. Tuttavia, in materia di esercizio della discrezionalità tecnica, non risulta consentito sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali: in altri termini, secondo il principio costituzionale di separazione, il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato.

Delineati così i limiti del sindacato giurisdizionale sul provvedimento di archiviazione adottato dall’AGCM, il Consiglio di Stato ha stabilito che l’appello proposto da Green Network fosse infondato. Difatti, il giudice non ha ritenuto configurabile, nel caso di specie, la carenza di istruttoria, denunciata dalla ricorrente come presupposto della richiesta di riapertura dell’attività di accertamento del winback. A tal proposito, il Consiglio di Stato – conformemente alla sentenza del TAR Lazio – ha stabilito che l’AGCM, nell’effettuare le valutazioni sul punto, ha svolto attività istruttorie adeguate senza incorrere in alcuna violazione procedimentale. In particolare, l’AGCM non soltanto aveva compiuto attività ispettive, bensì aveva anche avanzato numerose richieste di informazioni alle parti e a soggetti terzi in grado di fornire elementi utili (comprese alcune società di teleselling indicate dalla stessa Green Network) le cui risposte sono state valutate dall’AGCM, nel senso di una mancanza di un quadro probatorio sufficiente a sostegno dell’ipotesi accusatoria prospettata dalla ricorrente contro il Gruppo Enel.

Pertanto, nei limiti predetti di sindacabilità e confermando la sentenza del TAR Lazio, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto da Green Network.

Davide Mancini

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Appalti, concessioni e regolazione / L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato risolve la questione relativa alla modifica soggettiva degli RTI per perdita dei requisiti di ordine generale delle imprese partecipanti

In data 25 gennaio 2022, con la pronuncia n. 2, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è espressa sulla questione relativa alla modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese (RTI), in caso di perdita dei requisiti generali di partecipazione di cui all’art. 80, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice), da parte del mandatario o di una delle imprese mandanti.

Venendo ai fatti di causa specifici, la controversia origina dall’aggiudicazione in favore di un RTI di una gara di appalto per alcuni lavori di ampliamento di carreggiate autostradali con importo a base d’asta di oltre 300 milioni di euro. L’impresa aggiudicataria (Impresa), durante la fase di verifica dei requisiti antecedenti alla sottoscrizione del contratto, ha comunicato alla stazione appaltante la volontà di rimodulare – in riduzione – la compagine del RTI con il recesso di una delle imprese mandanti (v. art. 48, comma 19, del Codice).
La stazione appaltante, per un verso, ha rigettato la richiesta dell’Impresa e, per altro verso, ha disposto l’esclusione dell’intero RTI. Secondo la stazione appaltante, nell’esecuzione di altri e precedenti contratti, l’impresa mandante che avrebbe dovuto recedere dal RTI era incorsa in una serie di gravi inadempimenti contrattuali sfociati, in alcuni casi, in delle risoluzioni contrattuali per inadempimento. Per l’effetto, questa impresa mandante era incorsa in gravi illeciti professionali e dunque perso i requisiti di carattere generale necessari alla partecipazione delle gare pubbliche (in particolare, la stazione appaltante ha ritenuto applicabili le fattispecie di cui (i) all’art. 80, comma 5, lett. c) del Codice – per i gravi inadempimenti posti in essere – e (ii) 80, comma 5, lett. c-ter) del Codice – per le risoluzioni contrattuali.
L’Impresa (quale mandataria del RTI escluso) ha proposto ricorso al TAR Toscana che, con la sentenza, 10 febbraio 2021, n. 217 ha accolto il ricorso e annullato il provvedimento di esclusione. In particolare, secondo il TAR, quand’anche fosse corretta la valutazione in ordine alla perdita dei requisiti generali di cui all’art. 80 da parte di una delle imprese mandanti, la stazione appaltante non avrebbe dovuto escludere tout court e automaticamente l’intero RTI bensì consentire allo stesso di rimodulare l’organizzazione interna del raggruppamento affinché le imprese restanti del RTI eseguissero le attività che erano di competenza dell’impresa esclusa (e fuoriuscita dal raggruppamento). Sotto un profilo prettamente giuridico, il TAR ha precisato che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo nelle ipotesi di perdita dei requisiti di ordine generale da parte della mandataria o di una o più delle imprese mandanti è consentita anche in corso di gara e non soltanto in fase di esecuzione del contratto.

A valle della sentenza del TAR Toscana, l’altro concorrente controinteressato arrivato secondo nella graduatoria originaria e che, in ragione dell’esclusione dell’Impresa, era divenuto aggiudicatario della gara, ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato. Investita della questione, la Terza Sezione ha così rimesso la questione all’Adunanza Plenaria (con ordinanza del 18 ottobre 2021, n. 6959).

La questione giuridica ruota attorno a tre commi dell’art. 48 del Codice che istituisce e disciplina l’istituto del RTI. In particolare, i commi relativi alla modifica soggettiva degli stessi (comma 17, 18 e 19-ter).
Come noto, in merito alla composizione degli RTI vige il principio generale della immodificabilità soggettiva, che risponde all’esigenza di evitare che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto del quale non abbia potuto verificare i requisiti, generali o speciali di partecipazione.
Tale principio subisce tuttavia delle deroghe. Infatti, se da un lato sussiste l’esigenza appena descritta, dall’altro vi è anche quella contrapposta di evitare che le vicende sopravvenute che possono colpire uno dei partecipanti del RTI possano riverberarsi anche sugli altri impedendo l’esecuzione dell’appalto. In situazioni in cui non sia incisa la capacità complessiva del raggruppamento che, riorganizzatosi al suo interno, sia ancora in grado di garantire l’esecuzione dell’appalto (possedendo ancora i requisiti richiesti), non si vede la ragione di escludere l’intero raggruppamento impedendo alla stazione appaltante di poter beneficiare dell’esecuzione del contratto da parte di chi ha presentato l’offerta migliore. Rispetto a tale esigenza, all’art. 48 del Codice, il legislatore ha introdotto dunque i tre commi sopra citati (17, 18 e 19-ter). In estrema sintesi, le previsioni ivi contenute consentono, ricorrendone i presupposti, la modificazione “in diminuzione” del RTI (e mai “per addizione”), al fine di evitare in fase di gara ovvero esecutiva l’eventuale indizione di una nuova gara.

Venendo alla questione controversa, la Terza Sezione del Consiglio di Stato si è domandata se, con particolare riferimento alla perdita dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 80 del Codice, la modifica soggettiva del RTI sia ammissibile esclusivamente nella fase esecutiva del contratto oppure anche durante la precedente fase di gara.

Nella versione originaria del Codice, la modifica soggettiva era consentita esclusivamente per la sottoposizione a procedura concorsuale e in fase di esecuzione. In altre parole, la modifica non era consentita durante la fase di gara, senza nemmeno prevedere l’ipotesi della perdita dei requisiti di ordine generale.

Per tale ragione, il legislatore ha modificato il Codice ma così facendo ha purtroppo prodotto una antinomia normativa introducendo due previsioni contraddittorie e tra loro non conciliabili.
Risolvendo tale antinomia con la sentenza in oggetto, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che un’interpretazione che preveda la possibilità di procedere alla modifica soggettiva in caso di perdita dei requisiti generali esclusivamente in fase di esecuzione e non anche in fase di gara (come per le altre ipotesi di modifica soggettiva – v. es. fallimento), da un lato, introdurrebbe una irragionevole disparità di trattamento tra le varie ipotesi di sopravvenienze e, dall’altro, finirebbe impropriamente per consentire la modificazione in casi che possono essere anche più gravi rispetto a quelli della perdita di requisiti generali.

Dunque, in sintesi, la modifica soggettiva del RTI in caso di perdita dei requisiti generali di partecipazione di cui all’art. 80 del Codice è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara.

La pronuncia dell’Adunanza Plenaria in commento appare di estrema importanza, consentendo agli operatori economici di avere finalmente un’immagine puntuale sul tema della modificabilità soggettiva degli RTI.

Tommaso Filippo Massari

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