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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Giustizia europea e cartello degli stabilizzanti termici – La Corte di Giustizia conferma una sanzione irrogata dalla Commissione annullando la sentenza in primo grado del Tribunale

Con la sentenza del 25 novembre scorso, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha annullato la decisione del Tribunale dell’Unione Europea (Tribunale UE), confermando quindi la sanzione irrogata dalla Commissione Europea (Commissione) alla società GEA Group AG (GEA) per accordi e pratiche anticoncorrenziali nel settore degli stabilizzanti termici.

L’antefatto procedimentale appare alquanto articolato. Nel 2009, la Commissione aveva sanzionato, GEA e altre due società facenti parte dello stesso gruppo e controllate da GEA, ovvero Chemson Polymer-Additive (CPA) e Aachener Chemische Werke (ACW) insieme ad altre imprese concorrenti nel settore in esame. In particolare, la società GEA è stata considerata responsabile per le infrazioni commesse nel settore degli stabilizzanti termici dall’11 settembre 1991 al 17 maggio 2000. Con la decisione del 2009, la Commissione aveva irrogato alle tre società le seguenti ammende: una di €1.913.971 in solido a GEA, AWC e CPA; e un’altra di €1.432.229 in solido a GEA e AWC. AGW aveva segnalato alla Commissione che l’ammenda che le era stata inflitta superava il limite massimo del 10% del suo fatturato. Di conseguenza, nel 2010, la Commissione aveva modificato la decisione del 2009, riducendo nei soli confronti di AGW l’importo dell’ammenda e precisando che la decisione del 2010 non incideva in alcun modo su GEA e CPA, rideterminando l’importo delle sanzioni come segue: €1.086.129 in solido a GEA, ACW e CPA; €827.842 in solido a GEA e a CPA; e €1.432.229 esclusivamente in capo a GEA. Le sanzioni erano quindi diventate tre in conseguenza della riduzione dell’importo dovuto da AGW.

La decisione del 2010 era stata impugnata da GEA e annullata dal Tribunale UE nei limiti in cui la decisione riguardava tale società: il Tribunale UE ha statuito che la Commissione avesse violato i diritti di difesa di GEA, adottando la decisione senza averla preliminarmente ascoltata.

La Commissione nel 2016 aveva quindi adottato una nuova decisione, la quale riconfermava la decisione del 2010, e fissava la data di esigibilità delle ammende al 10 maggio 2010.

GEA aveva nuovamente impugnato tale decisione lamentando, inter alia, la violazione del principio di parità di trattamento da parte della Commissione, dal momento che quest’ultima ha ridotto integralmente la parte della sanzione dovuta da ACW in solido con GEA, e invece solo parzialmente quella dovuta da AWC in solido con CPA. Secondo GEA, la Commissione avrebbe dovuto ripartire diversamente tra le società coobbligate in solido la riduzione dell’ammenda dovuta da AGW. GEA lamentava inoltre l’eccesso di potere esercitato dalla Commissione in quanto la stessa aveva stabilito la data di esigibilità della sanzione nel 10 maggio 2010, ovvero tre mesi dopo la notifica alle società della decisione del 2010.

Accogliendo tali motivi dedotti da GEA, il Tribunale UE aveva quindi annullato la decisione del 2016 della Commissione.

La Commissione ha impugnato detta sentenza davanti alla CGUE di Giustizia, deducendo due motivi:

- il primo, fondato sull’erronea applicazione del principio di parità di trattamento; e

- il secondo sulla violazione delle regole di fissazione della data di esigibilità delle ammende in materia di diritto della concorrenza.

Per quanto riguarda il principio di parità di trattamento, la Commissione ha precisato che, poiché GEA, ACW e CPA formavano una sola e unica impresa, non occorreva valutare la parità di trattamento tra queste società. Secondo GEA invece il principio di parità di trattamento non è applicabile solo a imprese diverse ma anche nei rapporti tra società facenti parte della medesima entità economica. Inoltre, GEA ha affermato che la Commissione con le sue decisioni aveva fissato due ammende per due gruppi di entità distinte.

La CGUE ha accolto il citato motivo dedotto dalla Commissione, chiarendo che il Tribunale UE ha commesso un errore nel non prendere in considerazione la nozione di impresa ai sensi del diritto della concorrenza dell’Unione. Dal momento che la responsabilità solidale è una manifestazione di un effetto di pieno diritto della nozione d’impresa, e che in questo caso esisteva effettivamente una sola e unica impresa, “la Commissione era legittimata […] a determinare gli importi massimi dell’ammenda di cui potevano essere ritenute solidalmente responsabili GEA, ACW e CPA, per il pagamento di una sola ammenda, in quanto entità che facevano parte di una sola e unica impresa alla quale l’infrazione in questione era imputabile”. Inoltre, la CGUE ha precisato che “quando due persone giuridiche distinte, quali una società controllante e la sua controllata, non costituiscono più un’impresa, ai sensi dell’articolo [101] CE, alla data di adozione di una decisione che infligge loro un’ammenda, esse hanno il diritto di vedersi applicare individualmente il limite del 10% del fatturato”. Nel caso di specie, la società controllata AGW, la quale, alla data di adozione della decisione del 2009, non faceva più parte della medesima entità economica a (cui era imputabile la sanzione), aveva diritto di vedersi applicare individualmente il limite massimo del 10% del fatturato: non era quindi ravvisabile una violazione del principio di parità di trattamento.

Inoltre, la CGUE ha accolto il motivo relativo alla violazione, da parte del Tribunale UE, delle regole di fissazione della data di esigibilità delle ammende in materia di diritto della concorrenza. La Commissione aveva inizialmente previsto, nella decisione del 2009, una data di esigibilità delle ammende fissata a tre mesi dalla data di notifica di tale decisione. La Commissione, con il ricorso alla CGUE, ha fatto valere che essa aveva il diritto di modificare (con la decisione del 2010) l’importo dell’ammenda inflitta e la responsabilità solidale, senza dover fissare necessariamente una nuova data di esigibilità dell’ammenda. Secondo GEA, invece, la data di esigibilità dell’ammenda non poteva essere fissata a una data anteriore alla notifica della decisione del 2016. La CGUE ha accolto la censura della Commissione, precisando che l’annullamento della decisione del 2010 da parte del Tribunale UE ha avuto l’effetto di ripristinare la versione iniziale dell’articolo 2 della decisione del 2009; tuttavia, tale versione è stata nuovamente sostituita dalla decisione del 2016, con cui la Commissione ha stabilito la data di esigibilità delle ammende nel 10 maggio 2010. Tale data è anteriore alla data di ricezione della notifica della decisione del 2016 ma successiva alla data fissata nella decisione del 2009. La decisione del 2010, ricorda la Commissione, ha solo modificato l’importo dell’ammenda dovuta da AGW (e quindi rideterminato i rapporti di solidarietà), ma non è dalla decisione del 2010 che deriva l’imposizione dell’ammenda in quanto tale, né da quella del 2016: è la decisione del 2009 che costituisce il fondamento giuridico dell’obbligo per GEA, ACW e CPA di pagare l’ammenda. Quindi, il Tribunale UE ha errato nel considerare che la data di esigibilità delle ammende potesse essere determinata solo a decorrere dalla data di ricezione della notifica della decisione del 2016.

La CGUE ha quindi accolto parzialmente il ricorso della Commissione e, annullando la sentenza del Tribunale UE del 2018, ha riconfermato la sanzione irrogata a GEA, esigibile dalla data indicata nella decisione del 2016.

Chiara Giustiniani
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Abuso di posizione dominante, contenzioso civile e Booking - La Corte di Giustizia fornisce chiarimenti in relazione alle norme sulla giurisdizione in casi in cui l’abuso sia collegato ad un contratto

In data 24 novembre 2020, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha pubblicato la sentenza nella causa C-59/19 (la Sentenza), concernente la domanda di pronuncia pregiudiziale con la quale il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca) ha chiesto alla CGUE – in relazione ad azioni civili dirette ad inibire determinate pratiche messe in atto nell’ambito di un rapporto contrattuale ma fondate su un’allegazione di abuso di posizione dominante – quali norme sulla giurisdizione tra soggetti di diversi Stati membri debbano trovare applicazione. In particolare, il nodo centrale è se debbano applicarsi le norme in materia di contratti o quelle in materia di illeciti civili.

In primo luogo, è importante riassumere brevemente i punti fondamentali della vicenda. Wikingerhof GmbH & Co. KG, società di diritto tedesco che gestisce un albergo in Germania (Wikingerhof), aveva stipulato con Booking.com BV, con sede nei Paesi Bassi (Booking), un contratto con il quale la prima accettava non solo le condizioni generali di Booking presenti al momento del contratto stesso ma anche, automaticamente, eventuali successive modifiche. Dopo varie modifiche delle condizioni generali, che pertanto – in forza del contratto in questione – era tenuta a “subire”, Wikingerhof propone al Landgericht Kiel (Germania) un’azione inibitoria diretta ad ottenere nei confronti di Booking.com l’ingiunzione di astenersi dal porre in essere quei comportamenti derivanti dall’applicazione delle “nuove” condizioni generali. Nella sua azione, Wikingerhof sosteneva di non aver avuto altra scelta se non quella di stipulare tale contratto e di subire l’effetto delle successive modifiche delle condizioni generali di Booking.com a causa della posizione dominante detenuta da quest’ultima sul mercato dei servizi di intermediazione e dei portali di prenotazione alberghiera.

Sia in primo, sia in secondo grado, l’azione di Wikingerhof viene respinta a causa di un difetto di giurisdizione da parte delle autorità tedesche, dal momento che – secondo queste ultime – avrebbe dovuto applicarsi la regola generale per cui il giudice competente è quello del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio (nel caso di specie, i Paesi Bassi). Il giudice di ultima istanza, tuttavia, aveva deciso di adire la CGUE in via pregiudiziale per risolvere la questione.

In relazione a ciò, la CGUE ha rilevato che un’azione rientra nella materia contrattuale solo nei casi in cui l’interpretazione del contratto appare indispensabile per stabilire la liceità del comportamento. Per contro, quando l’attore invoca, nell’atto introduttivo del ricorso, le norme sulla responsabilità da illecito civile, e non risulta indispensabile esaminare il contenuto del contratto concluso con il convenuto per valutare la liceità o l’illiceità del comportamento contestato a quest’ultimo, la causa petendi rientra nella materia degli illeciti civili.

Nel caso di specie, nell’atto introduttivo della sua azione, Wikingerhof aveva dedotto il divieto generale di abuso di posizione dominante, indipendentemente da qualsiasi contratto o altro impegno volontario. Pertanto, per valutare il comportamento di Booking, secondo la CGUE non era indispensabile interpretare il contratto che vincola le parti del procedimento principale se non per stabilire l’effettività delle suddette pratiche.

Alla luce di ciò, la CGUE ha concluso che, fatta salva una verifica da parte del giudice del rinvio, l’azione di Wikingerhof, essendo fondata sul divieto di abuso di posizione dominante, rientri nella materia degli illeciti civili e che, pertanto, la giurisdizione è delle corti tedesche, applicandosi la regola per cui in questi casi rileva il luogo in cui è avvenuto l’illecito.

Mila Filomena Crispino
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Pay-for-Delay e settore farmaceutico – La Commissione sanziona per 60,5 milioni di euro Teva Pharmaceutical Industries Ltd. e Cephalon Inc. per aver concordato di ritardare di diversi anni l'ingresso sul mercato di una versione generica del farmaco “Modafinil”

Con la decisione del 26 Novembre scorso, la Commissione Europea (la Commissione) ha sanzionato per un totale di 60,5 milioni di euro le società Cephalon Inc. (Cephalon) e Teva Pharmaceutical Industries Ltd. (Teva) per aver posto in essere un accordo di natura orizzontale, volto a ritardare per diversi anni l’ingresso nel mercato europeo di un farmaco generico alternativo al Modafinil, in violazione dell’Articolo 101 TFUE (c.d. accordi di “Pay-for-Delay”).

Nello specifico, il Modafinil era commercializzato da Cephalon con il nome di “Provigil”. Tale medicinale è diffusamente utilizzato per la cura dei disturbi del sonno ed è particolarmente indicato per il trattamento della narcolessia. Il Modafinil è inoltre il farmaco maggiormente noto tra quelli prodotti da Cephalon, tanto da generare circa il 40% del fatturato globale della società.

L’accordo tra Cephalon e Teva risale al 2005, quando, scaduto il brevetto di Cephalon sul farmaco Modafinil, Teva si era preparata a lanciare sul mercato europeo la versione generica del farmaco, iniziandone anche la commercializzazione e la vendita nel Regno Unito. Al fine di contrastare l’iniziativa della concorrente, Cephalon aveva intentato una azione legale nei confronti di Teva, lamentando la violazione di alcuni brevetti secondari ancora validi e relativi a specifici processi produttivi del farmaco Modafinil. Tuttavia, secondo quanto rilevato dalla Commissione, Cephalon, essendo consapevole della debolezza della propria pretesa, avrebbe allora offerto a Teva un accordo per porre fine alla lite sul brevetto, accordandosi contestualmente anche a ritardare l’ingresso sul mercato del farmaco generico. Teva, in cambio, avrebbe ricevuto, oltre ad una serie di pagamenti in denaro, anche svariati benefici commerciali, tra cui: (i) un accordo di distribuzione; (ii) l’acquisizione da parte di Cephalon della licenza di vari brevetti di Teva; (iii) la possibilità di vendere materie prime a Cephalon e (iv) l’accesso ai dati e agli studi clinici condotti da Cephalon per lo sviluppo di un altro farmaco.

Secondo la Commissione, tale accordo sarebbe rimasto valido tra le parti dal 2005 al 2011, anno in cui Cephalon è stata acquisita dalla stessa Teva. Tale accordo avrebbe causato un danno rilevante alla concorrenza, dato che, in assenza dello stesso, Teva sarebbe entrata nel mercato della commercializzazione del farmaco Modafinil diversi anni prima. Tale ingresso certamente avuto l’effetto di abbassare sensibilmente i prezzi del farmaco. Infatti, la Commissione in passato ha avuto modo di rilevare che l’ingresso dei farmaci generici comporta quasi sempre una diminuzione pari almeno il 50% dei prezzi medi del medicinale in questione, talvolta anche pari al 90%.

Alla luce di tali considerazioni, la Commissione ha inflitto a Cephalon una sanzione pari a 30,5 milioni di euro, calcolata sulla base dei parametri indicati nei propri “Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003” (le Linee Guida). Con riferimento a Teva invece, la Commissione ha ricordato che, per via della natura intrinseca degli accordi del tipo Pay-for-Delay (che richiedono al produttore di generici di astenersi dalle vendite del farmaco in questione), non sia possibile determinare una sanzione adeguata sulla base dei parametri indicati nelle Linee Guida. Infatti, non realizzando vendite, non è possibile utilizzare come base per il calcolo della sanzione il totale realizzato dalle vendite del prodotto oggetto dell’accordo che viola le regole della concorrenza comunitarie. Per questo motivo la Commissione ha deciso di applicare a Teva una sanzione forfettaria, leggermente inferiore rispetto a quella inflitta a Cephalon, pari a 30 milioni di euro.

La decisione in commento è l’ultimo capitolo dell’ampia indagine iniziata nel 2009 dalla Commissione in relazione agli accordi di Pay-for-Delay nel settore farmaceutico. In tale ambito, negli scorsi anni erano state sanzionate altre case farmaceutiche: nel 2013 la Commissione aveva sanzionato Lundbeck e vari produttori di generici del farmaco Citalopram per un totale di 146 milioni di euro per aver posto in essere un accordo di Pay-for-Delay. Sempre nel 2013, per condotte analoghe in relazione al farmaco Fentanyl, erano state sanzionate Johnson & Johnson e Novartis e nel 2014 era stata la volta di Servier e 5 produttori di generici, relativamente al farmaco Perindopril.

Luca Casiraghi
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Diritto della concorrenza Italia / Intese restrittive della concorrenza e collecting societies – L’AGCM avvia un procedimento istruttorio nei confronti di Nuovo Imaie e SCF

Con il provvedimento n. 28438 del 3 novembre 2020, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato un procedimento istruttorio nei confronti del Nuovo Istituto Mutualistico per la Tutela degli Artisti Interpreti ed Esecutori (Nuovo Imaie) e di SCF S.r.l. (SCF).

Il procedimento ha ad oggetto la costituzione, ad opera di Nuovo Imaie e SCF (le Parti), di una impresa comune di natura cooperativa, destinata ad operare nella intermediazione dei diritti connessi al diritto d’autore afferenti l’utilizzo di opere musicali. L’AGCM ha appreso dell’iniziativa a seguito di una comunicazione effettuata dalle Parti ai sensi del d.lgs. 15 marzo 2017, n. 35, che ha recepito in Italia la direttiva 2014/26/UE in tema di gestione collettiva dei diritti d’autore e diritti connessi e che prevede la possibilità per gli organismi di gestione collettiva di indirizzare all’AGCM “osservazioni e proposte dirette alla migliore attuazione delle disposizioni” dello stesso decreto (cfr. articolo 44).

Al fine di comprendere le preoccupazioni concorrenziali dell’AGCM, è opportuno richiamare brevemente alcune caratteristiche del settore economico oggetto del procedimento. Ai sensi della normativa di settore (cfr. legge 22 aprile 1941, n. 633), gli utilizzatori di un’opera musicale (ad esempio emittenti radiofoniche e televisive, luoghi di aggregazione o pubblici esercizi) sono tenuti al pagamento dei c.d. diritti connessi al diritto d’autore. Il pagamento dei diritti connessi è dovuto nei confronti dei soggetti che hanno contribuito alla realizzazione di una determinata opera musicale, ossia artisti, interpreti ed esecutori (AIE) e produttori di fonogrammi (PdF). Le attività connesse all’amministrazione ed intermediazione dei diritti connessi vengono normalmente svolte in forma collettiva dalle collecting societies in rappresentanza dei beneficiari – in particolare, Nuovo Imaie rappresenta la principale collecting society per gli AIE, mentre SCF rappresenta la principale collecting society per i PdF. Il settore in oggetto è stato recentemente interessato da una modifica legislativa, intervenuta con legge annuale sulla concorrenza del 2017. Prima della novella legislativa, la raccolta dei compensi spettanti a ciascuna delle categorie veniva effettuata congiuntamente: i PdF raccoglievano dagli utilizzatori sia la propria quota, sia quella degli AIE. La riforma del 2017 ha riconosciuto rilevanza autonoma agli AIE, creando un doppio binario di raccolta dei compensi – tale sviluppo è stato incoraggiato dalla stessa AGCM, che in più occasioni aveva auspicato l’intervento del legislatore finalizzato ad ampliare lo spazio di negoziazione dei compensi rimesso ai soggetti coinvolti.

L’impresa comune costituita dalle Parti si inserisce nel contesto di mercato sopra descritto. Nelle intenzioni delle Parti, l’impresa comune si occuperà della negoziazione e stipulazione con gli utilizzatori finali delle licenze aventi ad oggetto i repertori delle opere musicali gestiti dalle imprese madri. L’impresa comune offrirà i propri servizi a tutte le collecting societies e/o gli enti di gestione indipendenti che ne facciano richiesta.

Inoltre, l’AGCM chiarisce che l’impresa comune non beneficerà di un proprio database, né di un proprio repertorio di opere musicali da gestire, limitandosi ad operare sulla base di quelli messi a disposizione dalle imprese madri e da eventuali altre entità aderenti. Parallelamente, le imprese madri continueranno ad essere attive in tutte le altre fasi relative alla gestione dei diritti connessi, operando dunque nello stesso settore e/o in settori contigui rispetto all’impresa comune.

La preoccupazione concorrenziale connessa all’iniziativa risiede nel fatto che l’impresa comune si porrebbe come interlocutore unico nelle negoziazioni con gli utilizzatori per conto sia degli AIE, sia dei PdF, in qualche modo riproducendo la situazione pre-esistente alla predetta novella legislativa. Ad avviso dell’AGCM, questa centralizzazione delle negoziazioni sarebbe tale da alterare le dinamiche concorrenziali dei mercati coinvolti – l’impresa comune acquisirebbe un peso specifico significativo sia rispetto agli utilizzatori (i.e. rispetto alle proprie controparti negoziali), sia rispetto ai soggetti che rappresenta. Ciò causerebbe una compressione della capacità delle collecting societies concorrenti di esercitare una adeguata pressione concorrenziale tramite la proposizione di soluzioni economiche e qualitative diversificate. In definitiva, il rischio paventato dall’AGCM è che l’impresa comune possa trovarsi nella posizione di condizionare gli standard di mercato, determinandone le principali variabili.

Inoltre, l’AGCM rileva che l’impresa comune riuscirebbe a fare leva su un database significativo, risultante dalla combinazione dei dati di Nuovo Imaie e SCF. Ciò metterebbe le imprese madri in una posizione privilegiata rispetto ad utilizzatori e AIE/PdF, disponendo di dati inaccessibili alle collecting societies concorrenti derivanti dalla combinazione dei propri database. La conseguenza sarebbe lo sbilanciamento delle dinamiche concorrenziali anche a livello delle imprese madri.

L’AGCM ritiene infine che la costituzione dell’impresa comune potrebbe avere un impatto significativo sui mercati interessati. In primo luogo, Nuovo Imaie e SCF rappresentano le principali collecting societies nei propri ambiti, con una quota di mercato pari a circa l’85% ciascuna. In secondo luogo, l’impresa comune riuscirebbe a gestire l’intera gamma dei diritti connessi alle opere musicali (Nuovo Imaie per conto degli AIE, SCF per conto dei PdF), così come detto vanificando gli effetti della riforma del 2017.

Il procedimento presenta numerosi profili di interesse. Da un lato, esso insiste su un settore, quello delle collecting societies, già noto all’AGCM, che ha avuto modo di occuparsene sia nel contesto della propria attività di segnalazione (cfr. segnalazioni AS622 ed AS829), sia nel contesto di precedenti procedimenti istruttori (cfr. ex multis procedimento A489). Dall’altro – ed in via più generale – il procedimento costituisce un’utile opportunità per l’AGCM per chiarire i criteri di valutazione ai sensi dell’articolo 101 TFUE di imprese comuni aventi natura cooperativa. Come noto, infatti, nel diritto italiano tali imprese vanno considerate integralmente – al contrario di quanto accade a livello comunitario – come intese, e non come concentrazioni anche quando abbiano eventualmente natura full-function.

Il termine per la conclusione del procedimento è fissato al 31dicembre 2021.

Luca Villani
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Abuso di dipendenza economica e settore dell’abbigliamento – L’AGCM avvia un’istruttoria nei confronti di Benetton per accertare eventuali abusi nell’ambito delle relazioni con un franchisor del gruppo

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato il 17 novembre scorso un’istruttoria nei confronti di Benetton S.r.l. e Benetton Group S.r.l., rispettivamente holding finanziaria e operativa dell’omonimo gruppo industriale (Benetton), per accertare la sussistenza di eventuali illeciti nei rapporti di quest’ultimo con i rivenditori dei suoi prodotti, segnalate dall’amministratore della cessata società Miragreen S.r.l. (il Segnalante).

Benetton, infatti, distribuisce i propri prodotti attraverso due canali, vale a dire, da un lato, tramite una rete commerciale al dettaglio di proprietà e gestione diretta del gruppo, e, dall’altro, attraverso la distribuzione all’ingrosso a commercianti indipendenti che gestiscono punti vendita a marchio “Benetton”. Questi ultimi commercianti svolgono la propria attività nell’ambito di contratti di affitto di azienda o di ramo di azienda ovvero attraverso contratti di affiliazione commerciale (“franchising”).

Secondo il Segnalante, è proprio nell’ambito di tali contratti di franchising che Benetton avrebbe abusato della dipendenza economica dei propri affiliati imponendo condizioni eccessivamente onerose che avrebbero ostacolato sia la proficua gestione dell’impresa, sia la riconversione dell’impresa in un’attività diversa da quella di franchising a marchio “Benetton”.

In particolare, l’AGCM riporta le numerose disposizioni contrattuali la cui asserita abusività è lamentata dal Segnalante, che possono sinteticamente essere riassunte in tre gruppi, vale a dire:

(i) clausole che impongono oneri eccessivi in capo agli affiliati, tra cui quello di affidarsi ai professionisti selezionati da Benetton per alcune forniture, come lo sviluppo del progetto architettonico e l’acquisto dell’arredamento per i punti vendita, la sottoscrizione di una garanzia bancaria presso un istituto di gradimento di Benetton, di una polizza di assicurativa, etc.;

(ii) clausole che irrigidiscono eccessivamente la gestione dell’impresa stessa, anche ostacolandone la riconversione, quali il divieto di cessione del contratto di franchising, di mutamento della compagine sociale, dell’amministrazione, etc.; nonché

(iii) clausole che comprimono l’autonomia dell’affiliato nella gestione dell’impresa, per esempio limitandone l’autonomia nella scelta dei prodotti da ordinare, nell’adesione alle campagne di pubblicitarie, e nella restituzione dei prodotti difettosi.

Il provvedimento di avvio si concentra soprattutto su quest’ultimo gruppo di clausole, riportando come, in particolare, a detta del Segnalante, il rischio dell’invenduto sarebbe integralmente “scaricato” da Benetton ai propri affiliati attraverso la fornitura anche eccessiva dei prodotti di minor successo che risultano poi difficili da mobilizzare.

Il caso in discorso è inusuale, in primo luogo, per la base giuridica eletta a fondamento del provvedimento. Infatti, in tema di abuso di dipendenza economica, generalmente un illecito per il quale la parte offesa procede in sede civile, l’AGCM può attivarsi solo qualora ravvisi che tale abuso abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato.

Risulta quindi possibile che l’AGCM possa espandere l’ambito dell’istruttoria, durante il suo corso, anche oltre la sola relazione tra Benetton e il Segnalante, sì da giustificare l’esercizio dei propri poteri. Le imprese con reti di affiliati sono avvertite.

Riccardo Fadiga
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Intese e finanziamenti auto - Annullata dal TAR Lazio la decisione di accertamento dell’intesa che irrogava la sanzione complessivamente più elevata, pari a quasi 700 milioni di euro, mai irrogata dall’AGCM

Con alcune sentenze adottate il 24 novembre 2020 (Sentenze) il TAR del Lazio (TAR) ha annullato la decisione del 20 dicembre 2018 (Decisione) con cui, in esito al relativo procedimento (Procedimento), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva accertato un’intesa nel mercato della vendita delle auto attraverso finanziamenti posta in essere da Banca PSA Italia S.p.A., BMW Bank GmbH, FCA Bank S.p.A., FCE Bank Plc, General Motors Financial Italia S.p.A. (ora, Opel Finance S.p.A.), Mercedes Benz Financial Services Italia S.p.A., RCI Banque S.A., Toyota Financial Services Plc, e Volkswagen Bank GmbH, ossia le banche captive dei principali gruppi automobilistici (Captive) anche per il tramite delle associazioni di categoria Associazione italiana leasing (Assilea) e Associazione italiana del credito al consumo e immobiliare (Assofin, insieme ad Assilea, le Associazioni). In applicazione della dottrina della c.d. parental liability – ad avviso di molti per la prima volta in Italia in assenza di qualsivoglia evidenza di coinvolgimento delle controllanti – la Decisione riconosceva il coinvolgimento appunto anche delle società madri delle Captive, ossia Banque PSA Finance SA, Santander Consumer Bank S.p.A., BMW AG, CA Consumer Finance SA, FCA Italy S.p.A., Ford Motor Company, General Motors Company, Daimler AG, Renault SA, Toyota Motor Corporation e Volkswagen AG (Società Madri - congiuntamente alle Captive e alle Associazioni, Parti). Con la Decisione, pertanto, venivano irrogate alle Captive, in solido con le Società Madri, nonché alle Associazioni, sanzioni complessivamente pari a 678 milioni di euro, con la sola eccezione di Mercedes Benz Financial Services Italia S.p.A. e della sua controllante Daimler AG, che beneficiavano della non imposizione della sanzione in ragione del contributo fornito in qualità di leniency applicant (i.e. erano state loro a svelare all’AGCM la presunta intesa).

Le Sentenze in commento hanno annullato la Decisione accogliendo alcuni dei motivi contenuti nei ricorsi presentati dalle Parti sia in relazione a profili sia procedurali, sia sostanziali.

In particolare, il TAR evidenzia come l’AGCM abbia avviato il Procedimento al fine di verificare la sussistenza di un’intesa nel settore della fornitura di prodotti finanziari connessi all’acquisto di automobili e abbia condotto l’istruttoria su tale settore salvo, per la prima volta nella Comunicazione delle Risultanze Istruttorie, identificare il mercato rilevante con quello, diverso, della vendita delle auto attraverso finanziamenti erogati dalle captive banks. Così facendo, l’AGCM “… ha omesso di analizzare le dinamiche di tale mercato e si è concentrata esclusivamente su quello dei servizi dei finanziamenti auto [ed] è rimasta totalmente indimostrata, perché non oggetto di approfondimento istruttorio, la capacità, anche solo in via ipotetica e potenziale, delle condotte delle captive banks di determinare una restrizione della concorrenza del “nuovo” mercato così individuato …”.

Inoltre, il TAR ha evidenziato alcune specifiche incongruenze istruttorie con riguardo (i) all’idoneità della presunta collusione a incidere sulla formazione del prezzo delle auto, rimasta indimostrata; (ii) al ruolo delle c.d. finanziarie indipendenti, anch’esse operanti nel settore dei prodotti finanziari relativi alle auto ma escluse dall’indagine; e (iii) al mancato coinvolgimento nel Procedimento, con riguardo al gruppo PSA, di (almeno una) società del gruppo attiva nella commercializzazione di autoveicoli (per il gruppo PSA, infatti, erano state coinvolte nel Procedimento solo società attive nella fornitura di servizi finanziari).

Inoltre il TAR, in merito alla qualificazione della presunta infrazione come ‘restrizione della concorrenza per oggetto’ operata dall’AGCM, richiamando la consolidata giurisprudenza europea, ricorda che “… l’Autorità è sempre chiamata ad un’attenta attività di valutazione del contesto economico e giuridico del mercato di riferimento e degli obiettivi fondanti la condotta sanzionata, nel senso che un’intesa “per oggetto” può qualificarsi tale solo se vi è mercato sufficientemente definito che risulti “bloccato” dall’intesa come congegnata e se gli obiettivi riconducibili al momento della sua posizione in essere siano “de plano” considerabili anticoncorrenziali”.

Infine, sotto un profilo più squisitamente procedurale, il TAR ha accolto anche gli argomenti avanzati da alcune delle Parti in merito all’eccessiva durata della fase pre-istruttoria. Ciò alla luce del tempo intercorso tra la domanda di clemenza presentata dal leniency applicant (3 marzo 2014), domanda successivamente integrata per due volte, l’ultima il 21 ottobre 2016, e la data di avvio del Procedimento (28 aprile 2017), in assenza di particolari attività pre-istruttorie svolta dall’AGCM in tale lasso temporale. Sul punto il TAR ha chiarito che, a differenza di quanto sostenuto dalle Parti, non è applicabile ai procedimenti dell’AGCM l’art. 14 della l.689/81 che impone la contestazione immediata della violazione al trasgressore e, ove ciò non sia possibile, entro 90 giorni agli interessati residenti in Italia ed entro 360 giorni per quelli residenti all’estero. Ciononostante, prosegue il TAR, questo non può giustificare il compimento di una attività preistruttoria che si protragga ingiustificatamente, pena la violazione dei principi enucleati nella legge n. 241/90 e, in termini più generali, il venir meno dell’esigenza di efficienza dell’agire amministrativo e di certezza del professionista sottoposto al Procedimento. A conforto di una tale conclusione, vengono richiamati anche l’art. 6 CEDU e l’art. 41 della carta Fondamentale dei diritti UE, dai quali “non può che desumersi l’obbligo per l’Autorità competente ad accertare una violazione del diritto “antitrust” e ad applicare le relative sanzioni di procedere all’avvio della fase istruttoria entro un termine ragionevolmente congruo, in relazione alla complessità della fattispecie sottoposta, a pena di violazione dei principi di legalità e buon andamento […] [I]n linea generale si può convenire sul principio per cui il fatto che l’Autorità Antitrust deliberi l’avvio dell'istruttoria a distanza di vari mesi – ma non di vari anni - dalla segnalazione della possibile infrazione”.

Resta ora da vedere se il Consiglio di Stato confermerà le conclusioni del TAR, qualora l’AGCM decidesse di presentare ricorso avverso le Sentenze in commento.

Roberta Laghi
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