Diritto della concorrenza - Europa / Concentrazioni e settore alimentare – Il Tribunale dell’UE ha confermato la decisione della Commissione europea d’esaminare l’acquisizione di Boissons Heintz da parte di Brasserie Nationale
Con la sentenza dello scorso 2 luglio, il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale UE) ha confermato la decisione della Commissione europea (Commissione) di esaminare, su richiesta dell’autorità antitrust del Lussemburgo (Autoritè de concurrence du Grand-Duchè de Luxembourg, ACL), l’acquisizione da parte di Brasserie Nationale e della sua controllata Munhowen SA (le Ricorrenti) della società Boissons Heintz.
Ripercorrendo brevemente i fatti, il 22 dicembre 2023 Brasserie Nationale informava l’ACL circa la volontà della sua controllata Munhowen di acquisire Boisson Heintz, entrambe società di diritto lussemburghese attive nel campo della distribuzione all’ingrosso di bevande, illustrando l’operazione solo in termini generici. Dal momento che l’operazione non raggiungeva le soglie di fatturato previste dalla normativa europea sul controllo delle concentrazioni, non vi era l’obbligo di notificare l’acquisizione alla Commissione. Inoltre, in assenza di un sistema di merger control in Lussemburgo, l’operazione non era soggetta neppure ad alcuna notifica nazionale in quello Stato né le soglie di altri Stati membri dell’UE o aderenti all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo, venivano superate. A partire dal 17 gennaio 2024, l’ACL iniziava a ricevere segnalazioni da soggetti terzi che si lamentavano della concentrazione in termini più specifici. Il 7 febbraio 2024 l’ACL chiedeva alla Commissione, ai sensi dell’articolo 22, paragrafo 1 del regolamento (CE) 139/2004 (Regolamento), di esaminare la concentrazione in questione. Il 14 marzo 2024, la Commissione accoglieva la richiesta di rinvio e riteneva che la concentrazione non solo incidesse significativamente sugli scambi tra gli Stati Membri, ma anche sulla concorrenza nel mercato lussemburghese, in quanto capace di escludere i produttori di birra esteri privi di canali commerciali diretti (c.d. CHR/on-trade) nel Paese.
Le Ricorrenti proponevano dunque ricorso al Tribunale UE avverso la decisione della Commissione. Tra i motivi presentati, le Ricorrenti sostenevano che la richiesta di rinvio da parte dell’ACL era stata inviata oltre il termine di 15 giorni lavorativi dalla data della “comunicazione” della concentrazione, previsti dall’articolo 22 del Regolamento in alternativa alla “notifica” per quelle giurisdizioni nelle quali non è in vigore un sistema di controllo delle concentrazioni (c.d. Dutch clause). Le due società lussemburghesi ritenevano infatti che l’ACL sarebbe stata informata molto prima rispetto alla data del 17 gennaio, ritenuta invece rilevante dalla Commissione, e lamentavano che quest’ultima non aveva valutato correttamente il rispetto di tale termine, violando i principi di certezza del diritto e legittimo affidamento.
Il Tribunale UE, aderendo alle argomentazioni della Commissione, ha ritenuto che nel caso di specie, in assenza di un obbligo di notifica in Lussemburgo, il termine di 15 giorni doveva decorrere dalla data in cui è avvenuta la trasmissione attiva di informazioni rilevanti e sufficienti all’autorità dello Stato membro interessato al fine di valutare preliminarmente la concentrazione e l’esistenza delle condizioni per il rinvio. Cosa che, secondo il Tribunale UE, in pratica sarebbe potuto avvenire ad esempio attraverso l’invio di un semplice memorandum. Di conseguenza, il termine di 15 giorni lavorativi per la richiesta di rinvio aveva iniziato in questo caso a decorrere solo dal 17 gennaio 2024, momento in cui queste informazioni sono state effettivamente trasmesse, non essendo sufficiente il semplice avviso dell’esistenza dell’operazione - avvenuto in data 22 dicembre 2023 - a far decorrere tale termine.
Quanto alle condizioni relative all’incidenza dell’operazione sul commercio tra Stati membri e quella relativa all’impatto significativo sulla concorrenza nel territorio dello Stato che presenta la richiesta, entrambe necessarie per attivare il meccanismo di rinvio previsto dall’articolo 22 del Regolamento, il Tribunale UE nell’aderire alla valutazione della Commissione, ha sottolineato come queste valutazioni debbano essere effettuate dalla Commissione entro un periodo limitato di tempo e sono quindi necessariamente sommarie, confermando nel complesso come lo standard di valutazione per l’esistenza di queste condizioni sia tendenzialmente basso. Il Tribunale UE ha inoltre ribadito che la Commissione dispone di un ampio margine di discrezionalità nel decidere se accettare le richieste di rinvio. Nel caso del Lussemburgo, privo di un regime nazionale di controllo delle concentrazioni, la Commissione ha quindi correttamente ritenuto opportuno esaminare la concentrazione per evitare che la stessa non fosse soggetta ad alcuno scrutinio.
La sentenza assume particolare rilievo in quanto si inserisce nel solco di diversi precedenti giurisprudenziali che sottolineano l’importanza del meccanismo previsto dall’articolo 22 del Regolamento, fornendo indicazioni pratiche su strumenti di mitigazione dell’incertezza relativa al rischio di referral, un fattore estremamente importante nel processo di deal-making.
Lavinia Pelicella e Michael Tagliavini
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Aiuti di Stato e COVID-19 – La CGUE chiarisce che il diritto a un ricorso effettivo impone di considerare l’aiuto “concesso” sin dal momento in cui si verifica un diniego illegittimo di ammissione al regime di aiuti
Lo scorso 3 luglio, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (la CGUE) si è pronunciata su un rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte Amministrativa Regionale della Lettonia (il Giudice del Rinvio), nell’ambito di una controversia attinente ad un diniego di un aiuto di Stato.
La vicenda trae origine nel contesto della pandemia da COVID-19, quando la Commissione europea (la Commissione) aveva autorizzato un regime di aiuti alle imprese che si fossero trovate in carenza di liquidità, a condizione, tra le altre cose, che tali aiuti venissero concessi entro il 30 giugno 2022 (il Regime). La Lettonia istituiva quindi un siffatto regime, predisponendo che fosse l’amministrazione tributaria nazionale (l’Amministrazione) ad amministrare la concessione degli aiuti. In tali circostanze, l’Amministrazione rifiutava la richiesta di una società lettone, la TOODE SIA (la TOODE), di essere ammessa alla fruizione dei sussidi. TOODE impugnava tale diniego, inizialmente in primo grado, quindi in appello dinanzi al Giudice del Rinvio, chiedendo che questi ordinasse all’Amministrazione di adottare un provvedimento concedente detto aiuto; tuttavia, in pendenza dell’appello, scadeva il termine ultimo per essere ammessi al Regime.
Alla luce di ciò, il Giudice del Rinvio rilevava che, per potersi pronunciare sulla domanda, era necessario prima determinare se TOODE potesse ancora beneficiare dell’aiuto richiesto. A tal fine, il Giudice del Rinvio osservava sia che (i) nel diritto europeo, un aiuto si considera “concesso” nel momento in cui al beneficiario viene riconosciuto un diritto certo e incondizionato a riceverlo in forza del diritto nazionale; e (ii) nel diritto lettone, quando un giudice amministrativo impone ad un’amministrazione l’adozione di un atto, tale ordine (e il relativo provvedimento) non hanno efficacia retroattiva. Di conseguenza, in ragione del diniego dell’Amministrazione, l’aiuto avrebbe potuto considerarsi concesso soltanto nel momento in cui il Giudice del Rinvio avesse determinato che TOODE aveva in realtà diritto all’aiuto, ordinando all’Amministrazione di concederlo, e solo in quel momento TOODE avrebbe maturato un diritto certo e incondizionato all’aiuto. Ciò, tuttavia, avrebbe avuto anche l’effetto di qualificare l’aiuto come “nuovo”, poiché sarebbe stato “concesso” dopo la scadenza del regime autorizzatorio della Commissione, con la conseguenza che esso avrebbe dovuto essere nuovamente notificato e appositamente autorizzato dalla Commissione.
Il Giudice del Rinvio ha dunque sottoposto alla CGUE due questioni pregiudiziali. La prima riguarda la compatibilità con il diritto dell’Unione della normativa lettone, nella misura in cui essa impedisce di considerare come “concesso” fin da subito, ossia dal momento del diniego, un aiuto negato illegittimamente in prima battuta dall’amministrazione nazionale, qualora il riconoscimento giurisdizionale del diritto a tale aiuto intervenga solo dopo la scadenza del regime autorizzato. Con la seconda questione, il Giudice del Rinvio chiede se possa qualificarsi come “esistente” un aiuto concesso dopo la scadenza del regime di autorizzazione, ma in esecuzione di un ordine giurisdizionale che accertava il diritto del beneficiario a riceverlo.
In ordine alla prima questione, la CGUE rileva che una normativa nazionale come quella lettone contrasta con il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, garantito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Infatti, qualora il diritto di TOODE fosse riconosciuto in sede giurisdizionale, esso non potrebbe essere esercitato, poiché la sentenza interverrebbe dopo la scadenza del regime autorizzativo senza produrre effetti retroattivi. In tale scenario, l’aiuto dovrebbe qualificarsi come nuovo e non potrebbe beneficiare del regime autorizzativo pregresso. In ragione di ciò, la CGUE conclude che il Giudice del Rinvio è tenuto a disapplicare la normativa nazionale che ostacola la concessione dell’aiuto in tali circostanze, in maniera tale da, sostanzialmente, rimettere in termini TOODE, ossia facendo retroagire la concessione dell’aiuto al momento del rilascio del diniego illegittimo.
Rispetto alla seconda questione, la CGUE rammenta che, ai fini della qualificazione di un aiuto come “esistente” o “nuovo”, rileva invero il momento della concessione (ossia, del momento in cui il beneficiario acquisisce il diritto all’erogazione), e non quello in cui avviene l’erogazione materiale del sussidio. Di conseguenza, una volta che sia accertato che la concessione di un aiuto è avvenuta durante la vigenza del regime autorizzativo, l’aiuto deve essere qualificato come “esistente” anche se l’erogazione materiale avvenga successivamente alla scadenza del termine di applicabilità del regime.
La pronuncia in commento fornisce utili chiarimenti in merito al concetto di aiuto “concesso” e di aiuto “esistente”, in particolari circostanze in cui una pronuncia giurisdizionale interviene ribaltando gli effetti di un inziale diniego amministrativo alla concessione di un aiuto di Stato autorizzato. La sentenza rileva per quelle imprese che, pur avendo avuto idealmente diritto alla corresponsione di aiuti economici, sono state destinatarie di rifiuti illegittimi – da parte delle amministrazioni competenti – alla concessione dei aiuti nel frattempo scaduti.
Riccardo Ciani e Samuel Scandola
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore del tabacco – Il TAR Lazio conferma le sanzioni dell’AGCM nei confronti di British American Tobacco Italia e Amazon EU per pratiche commerciali scorrette nella vendita di dispositivi a tabacco riscaldato
Lo scorso 1° luglio, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio) con le sentenze nn. 12941/2025 e 12938/2025 ha respinto i ricorsi presentati da British American Tobacco Italia S.p.A. (BAT Italia) e Amazon EU S.à.r.l. (Amazon) (congiuntamente, le Società) avverso il provvedimento (già oggetto di commento in questa Newsletter) con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) sanzionava le Società – rispettivamente, per sei milioni e un milione di euro – per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette nella pubblicizzazione e vendita di due prodotti a tabacco riscaldato (Glo Hyper X2 e Glo Hyper Air – i Dispositivi).
Le condotte contestate dall’AGCM alle Società vertevano principalmente su due aspetti: (i) l’assenza – o la scarsa evidenza – dell’indicazione che i Dispositivi fossero destinati esclusivamente a un pubblico maggiorenne, sia nei materiali promozionali, sia nei portali online (come il marketplace di Amazon) sui quali era possibile acquistarli; e (ii) l’omissione o la rappresentazione ingannevole degli effetti nocivi per la salute derivanti dall’utilizzo dei Dispositivi, dovuti alla presenza di nicotina negli stick di tabacco (gli Stick), sempre necessari per il loro funzionamento anche se non commercializzati contestualmente ai Dispositivi.
Nel giudizio dinanzi al TAR Lazio, BAT Italia e Amazon hanno sostenuto che i Dispositivi non potessero essere qualificati come “prodotti del tabacco”, trattandosi di strumenti privi di sostanze nocive, venduti peraltro separatamente rispetto agli Stick. Sicché – rientrando nella categoria dei prodotti a tabacco riscaldato, diversa da quella delle sigarette tradizionali o delle sigarette elettroniche – non sarebbero stati soggetti ai medesimi limiti e divieti di natura regolamentare previsti per queste ultime, incluso l’obbligo di fornire avvertenze sanitarie o riferimenti alla presenza di nicotina negli Stick, nella fase di vendita e promozione dei soli Dispositivi.
Il TAR Lazio ha respinto tale impostazione osservando che, pur non potendo essere classificati come prodotti da fumo in senso stretto, i Dispositivi sono caratterizzati da una necessaria strumentalità rispetto al consumo del tabacco contenuto negli Stick, e che non è parimenti configurabile un consumo di questi ultimi senza il previo acquisto dei Dispositivi. Proprio questo rapporto di reciproca implicazione consente dunque di ritenere che, anche nella fase di commercializzazione autonoma del Dispositivo, sussista un obbligo informativo nei confronti del consumatore circa i rischi per la salute derivanti dall’utilizzo del prodotto in combinazione con gli Stick, a protezione peraltro di interessi costituzionalmente rilevanti, come quello della tutela della salute.
Il TAR Lazio ha inoltre sottolineato come la percezione visiva del messaggio pubblicitario, incentrato quasi esclusivamente sulle qualità innovative e funzionali dei Dispositivi, a fronte di un’esposizione marginale – o talvolta assente – delle avvertenze relative alla nocività del consumo congiunto di Dispositivi e Stick e al divieto di vendita ai minori, fosse idonea a ingenerare nel potenziale consumatore una distorsione cognitiva, portandolo ad assumere decisioni economiche che non avrebbe altrimenti preso.
Un ulteriore motivo di ricorso presentato da BAT Italia ha riguardato (ancora una volta!) la presunta tardività dell’avvio del procedimento istruttorio da parte dell’AGCM: secondo BAT Italia, infatti, l’AGCM avrebbe violato il termine perentorio di 90 giorni previsto dall’art. 14 della legge n. 689/1981 con riferimento ai procedimenti sanzionatori in generale.
Anche tale censura è stata rigettata dal TAR Lazio, che sul punto ha richiamato la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) - anch'essa già oggetto di commento in questa Newsletter - secondo la quale, in materia di pratiche commerciali scorrette, le autorità nazionali godono di un ampio margine di discrezionalità nella gestione delle denunce e nella programmazione dell’attività istruttoria, non essendo soggette a termini rigidi analoghi a quelli previsti per altre categorie di illeciti di cui all’art. 14 della legge 689/1981, che potrebbero nuocere seriamente all’effettività e al buon andamento della loro azione amministrativa.
In ogni caso, conclude il TAR Lazio, l’istruttoria che aveva coinvolto BAT Italia e Amazon doveva ritenersi regolata dal Regolamento AGCM n. 25411/2015, il quale stabiliva che “… l’avvio dell’istruttoria è disposto entro il termine di 180 giorni dalla ricezione dell’istanza di intervento …”. Sicché, nel caso di specie, considerato che le condotte oggetto di contestazione – iniziate nel settembre 2022 – sono state segnalate all’AGCM nel febbraio 2023, e che l’AGCM ha avviato il procedimento nell’aprile successivo, l’avvio dell’istruttoria era comunque avvenuto tempestivamente.
BAT Italia ha infine contestato la determinazione dell’importo della sanzione, ritenendo che l’AGCM avesse illegittimamente applicato i limiti edittali introdotti dalla modifica dell’art. 27, comma 9, del Codice del Consumo, entrata in vigore il 2 aprile 2023, a condotte sviluppatesi in epoca anteriore. Anche sotto questo profilo, il TAR Lazio ha condiviso l’impostazione dell’AGCM, affermando che poiché le condotte costituivano un illecito ad esecuzione continuata, la valutazione della sanzionabilità andava riferita al momento finale della condotta, collocabile in epoca successiva all’entrata in vigore della novella normativa.
Le sentenze in esame ribadiscono l’importanza attribuita al principio di trasparenza e correttezza dell’informazione commerciale, in particolare in ipotesi in cui emergono profili particolarmente sensibili, quali quelli relativi alla tutela della salute dei consumatori. Non resta che attendere l’eventuale prosieguo della controversia dinanzi al Consiglio di Stato.
Numa Blondi e Ignazio Pinzuti Ansolini
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Appalti, concessioni e regolazione / Impianti FER e settore dell’energia – Il TAR Lazio e il TAR Sardegna hanno richiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità della legge regionale della Sardegna che individua le aree idonee per l’installazione di impianti FER
Il TAR Lazio con due distinte decisioni (la n. 10095 del 26 maggio 2025 e la n. 9168 del 13 maggio 2025) e il TAR Sardegna (con l’ordinanza n. 146 del 9 giugno 2025) hanno adito in via incidentale la Corte costituzionale, dubitando della compatibilità della legge Regionale della Sardegna 5 dicembre 2024, n. 20 (la L.R. 20/2024 o legge regionale sarda) con gli artt. 3, 9, 11, 41, 97 e 117 della Costituzione. Si tratta della legge regionale che disciplina l’individuazione di aree e superfici idonee e non idonee all’installazione e promozione di impianti alimentati da fonti di energia rinnovabili (impianti FER).
Come noto, l’Italia ha assunto specifici obblighi in sede europea con riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili (“Fit for 55” e “REPowerEU”). In attuazione delle direttive europee, il d.lgs. n. 199/2021 ha definito importanti misure per promuovere l’uso dell’energia da fonti rinnovabili e per accelerare il percorso di crescita sostenibile del Paese, in coerenza con gli obiettivi europei di decarbonizzazione del sistema energetico al 2030 e di completa decarbonizzazione al 2050.
In tale contesto, le Regioni oggi provvedono all’individuazione delle aree idonee e non idonee, non più nell’ambito di un procedimento amministrativo, ma con legge regionale, sulla scorta dei principi e criteri fissati con il decreto ministeriale 21 giugno 2024 adottato dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (il DM Aree Idonee). Tuttavia, il DM Aree Idonee è stato annullato di recente dal TAR Lazio perché, come precedentemente analizzato in questa Newsletter, demandava integralmente alle Regioni l’individuazione delle aree idonee e non idonee senza fornire adeguati principi guida, aprendo la strada a una disciplina frammentata e disomogenea e senza prevedere alcuna disciplina transitoria per i procedimenti autorizzatori già avviati.
Parallelamente, la Sardegna è stata tra le Regioni più attive nell’adottare una propria disciplina regionale. A tal proposito è utile ricordare che la Corte costituzionale ha già annullato una prima legge regionale in materia (la L.R. Sardegna n. 5 del 2024), pubblicata nelle more dell’adozione del DM Aree Idonee, per violazione dell’art. 117 Cost., poiché, nel ritardare la realizzazione degli impianti FER, il legislatore regionale aveva indirettamente violato il diritto dell’Unione europea, mettendo a repentaglio il raggiungimento degli obiettivi stabiliti nel Green Deal europeo e del PNIEC (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima).
Anche la nuova disciplina della L.R. 20/2024 è sospettata di violare la Costituzione. In effetti, già dopo la sua pubblicazione, il Governo l’aveva impugnata in via principale con ricorso diretto alla Corte costituzionale. L’udienza di discussione davanti alla Corte è programmata per il prossimo 7 ottobre.
Al ricorso in via principale, si affiancano ora i giudizi promossi in via incidentale, nati dalle impugnazioni di alcuni operatori economici che hanno visto impedita la realizzazione degli impianti FER proprio dalla L.R. 20/2024. In particolare, la legge regionale sarda ha vietato in maniera assoluta la realizzazione degli impianti nelle aree individuate come non idonee, in contrasto con la giurisprudenza secondo cui la qualificazione di un’area come non idonea indicherebbe solamente l’esigenza di un’istruttoria amministrativa approfondita quanto all’impatto sulla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e dei beni culturali. Peraltro, secondo i giudici remittenti, tra il 95 e il 98% del territorio sardo sarebbe ricaduto nell’area coperta dal divieto di realizzare impianti FER, compromettendo in maniera significativa il conseguimento degli obiettivi europei.
Per quanto riguarda le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, in primo luogo, la L.R. 20/2024 violerebbe l’art. 3 Cost. perché i divieti si applicherebbero senza distinzioni a coloro che non hanno ancora presentato alcun progetto, che lo hanno sviluppato e sottoposto a valutazione dell’Autorità amministrativa o che hanno già ottenuto le autorizzazioni, così contravvenendo ai principi di uguaglianza, di proporzionalità, di certezza del diritto e di legittimo affidamento.
In secondo luogo, la legge regionale sarda sacrificherebbe il principio di sviluppo sostenibile violando l’art. 9 Cost. che indica tra i compiti della Repubblica la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi anche in ottica intergenerazionale.
In terzo luogo, la legge in questione violerebbe la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) proprio perché le eventuali restrizioni alla libera iniziativa presuppongono una ragionevole proporzione tra il fine perseguito e il mezzo prescelto, profilo che pare esser assente nella L.R. 20/2024.
Inoltre, la legge regionale sarebbe incompatibile con i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione ex art. 97 Cost., perché, nel predisporre una disciplina che impatta in via irragionevole sui procedimenti già definiti, osta alla possibilità di realizzare in via amministrativa il più opportuno bilanciamento di interessi coinvolti.
Infine, la legge regionale sarda violerebbe l’art. 117 Cost. sotto tre aspetti: (i) mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione e di transizione energetica fissati a livello europeo, violerebbe gli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario (art. 117, comma 1, Cost.); (ii) nella parte in cui è prevista l’applicazione in aree sottoposte a tutela culturale e paesaggistica, di una procedura differente dal procedimento autorizzatorio della soprintendenza competente, tale legge invaderebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali (art. 117, comma 2, Cost.); (iii) infine, la legge regionale sarda, che interviene nella materia di legislazione concorrente della “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia”, contrasterebbe con i principi fondamentali posti dallo Stato nel d.lgs. 199/2021 (art. 117, comma 3, Cost.).
Laura Pagliuso e Niccolò Ferracuti