Diritto della concorrenza – Italia / Concentrazioni e settore farmaceutico – L’AGCM ha deliberato l’avvio di una istruttoria (c.d. Fase II) sull’operazione di concentrazione fra due dei maggiori distributori di prodotti medicinali del Nord Italia
Con la delibera dello scorso 13 maggio 2025, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato un’istruttoria nell’ambito dell’operazione consistente nella fusione per incorporazione di UNICO La Farmacia dei farmacisti S.p.A. (UNICO) da parte di Cooperativa Esercenti Farmacia S.c. a r.l. (CEF) (l’Operazione), entrambe attive principalmente nel commercio all’ingrosso di specialità e prodotti medicinali e affini. Secondo la valutazione preliminare dell’AGCM, l’Operazione potrebbe a incidere significativamente sulla concorrenza in diversi mercati locali.
L’Operazione consiste nella fusione per incorporazione di UNICO in una società di nuova costituzione, QFarma S.r.l. (QFarma), nella quale CEF conferirà le proprie attività. All’esito dell’Operazione, QFarma sarà controllata congiuntamente da CEF e dai soci di UNICO. Entrambe le parti operano come distributori c.d. intermedi di medicinali tra case farmaceutiche e clienti finali (ossia, le farmacie). Come rimarcato dall’AGCM, si tratta di un mercato estremamente concentrato già a livello nazionale, con i primi cinque distributori che concentrano circa il 60% dei ricavi realizzati in Italia.
L’AGCM, conformemente alla prassi propria e della Commissione europea, distingue fra tipologie diverse di distributori: i c.d. full-line wholesalers, i quali forniscono l’intera gamma di farmaci prescrivibili, in tempi brevi e anche più volte al giorno; e i c.d. short-line wholesalers che, invece, forniscono prodotti ad alto volume di vendita e con minore frequenza. L’AGCM ha individuato il mercato del prodotto nel mercato della distribuzione all’ingrosso di specialità medicinali e prodotti parafarmaceutici realizzata dai full-line wholesalers, ritenendo che lo stesso abbia dimensione locale, delimitata sulla base di curve isocrone di diversa dimensione.
Secondo quanto rilevato dall’AGCM, l’Operazione potrebbe essere suscettibile di determinare significativi effetti di natura orizzontale in tutto il Nord Italia. All’esito dell’Operazione, QFarma verrebbe a detenere quote di mercato superiori al 35% in quasi tutte le province in cui opererà, peraltro, con quote anche superiori al 55% in alcune province e indici di concentrazione (volti a misurare il grado di concentrazione dei mercati) estremamente elevati. Inoltre, secondo l’AGCM, l’impatto dell’Operazione deve valutarsi anche alla luce del network di farmacie vincolate a CEF e UNICO.
L’AGCM ha quindi ritenuto di avviare l’istruttoria per approfondire le criticità che l’Operazione sembra sollevare. Non resta che attenderne l’esito per verificare se le problematiche concorrenziali sollevate dall’AGCM potranno essere superate.
Irene Indino
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Intese e settore autostradale – Il CdS interpella nuovamente la Corte di Giustizia in relazione alla giurisprudenza Caronte relativa alla violazione di un “termine ragionevole” per la conclusione della fase preistruttoria nei procedimenti antitrust
Con l’ordinanza dello scorso 14 maggio 2025 (l’Ordinanza), il Consiglio di Stato (CdS) ha chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) di riconsiderare la propria giurisprudenza sulla compatibilità col diritto europeo dell’applicazione del termine decadenziale di 90 giorni alla fase preistruttoria dei procedimenti antitrust in Italia. In subordine, il CdS ha anche chiesto chiarimenti sugli effetti del superamento di un “termine ragionevole” per la conclusione di tale fase e, in particolare, se la violazione del diritto di difesa vada dimostrata, affinché si possa giungere all’annullamento di una decisione dell’AGCM.
La vicenda ha avuto origine nel maggio 2019, quando il gestore di un tratto dell’infrastruttura autostradale nell’area di Milano (il Gestore) ha segnalato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) la possibile esistenza di un’intesa fra Sintexcal S.p.A. (Sintexcal) e altre società, volta a predeterminare l’esito di una gara per la manutenzione delle strade di competenza del Gestore.
L’AGCM ha chiesto maggiori informazioni al Gestore dopo cinque mesi dalla segnalazione, aprendo un’istruttoria formale nei confronti dei soggetti coinvolti soltanto a maggio 2021. Nel 2022, l’AGCM ha accertato una infrazione, sanzionando i soggetti coinvolti per una violazione dell’articolo 101 TFUE.
Sintexcal ha impugnato il provvedimento di fronte al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio) deducendo, in primo lugo, che l’AGCM aveva violato il termine perentorio di 90 giorni previsto dalla l. 689/1981 per la conclusione della fase c.d. “preistruttoria” e, in secondo luogo e in subordine che, anche ritenendo non applicabile il termine di 90 giorni, l’AGCM avrebbe comunque aperto l’istruttoria ben oltre un termine ragionevole.
Il TAR Lazio ha accolto la censura relativa al c.d. termine ragionevole e annullato la decisione. L’AGCM ha dunque proposto appello al CdS, lamentando che Sintexcal avrebbe fatto valere la violazione del termine ragionevole senza tuttavia dimostrare in concreto anche la violazione del proprio diritto di difesa.
Il CdS ha ritenuto di dover rinviare alla CGUE due quesiti pregiudiziali.
In primo luogo, il CdS ha chiesto alla CGUE se l’applicazione del termine nazionale di 90 giorni per la conclusione della fase preistruttoria in procedimenti antitrust sia compatibile con il diritto europeo. Il CdS ha sollevato la questione nella consapevolezza che la recente sentenza C-511/23 nel caso Caronte (già oggetto di commento in questa Newsletter) aveva già dichiarato l’incompatibilità di questo termine con i con i Trattati europei. Tuttavia, il CdS ha ritenuto che la CGUE non abbia correttamente messo a fuoco la differenza esistente nel diritto italiano fra la “comunicazione di avvio dell’istruttoria”, a cui soltanto si applica il termine perentorio, e la “comunicazione delle risultanze istruttorie”. In tale contesto, oltre a ribadire le argomentazioni già esaminate (e scartate) dalla CGUE nel caso Caronte, il CdS ha indirettamente risposto ad alcuni punti sollevati dalla sentenza in questione, nell’ottica di dimostrare che il termine di 90 giorni non metta a rischio l’effettività del diritto europeo in materia antitrust.
Secondo il CdS, da un lato, tale termine non metterebbe a rischio né la cooperazione fra le varie autorità a tutela della concorrenza, dal momento che questa può aver luogo anche dopo l’avvio dell’istruttoria formale, né la possibilità dell’AGCM di definire le proprie priorità investigative, poiché questo può avvenire già scartando le segnalazioni ricevute in relazione alla loro importanza. Dall’altro lato, se è vero che la tendenziale flessibilità del dies a quo del termine di 90 giorni costituisce un elemento di indeterminatezza (in quanto non sempre esso decorre dalla prima segnalazione), tale termine garantisce comunque una maggiore certezza giuridica del generico “termine ragionevole”, per definizione identificabile soltanto ex post.
In secondo luogo e in subordine, il CdS ha chiesto alla CGUE se la caducazione del provvedimento discenda in via automatica anche dal superamento del termine ragionevole, o se sia necessario verificare anche la violazione del diritto di difesa in capo al soggetto sanzionato. Inoltre, il CdS ha chiesto chiarimenti in tema di onere della prova e, in particolare, se questo ricada sulle imprese coinvolte o sull’AGCM.
Ad avviso del CdS, la necessità di rinviare il quesito pregiudiziale deriva dall’esistenza di una giurisprudenza europea che prevede che il superamento del termine ragionevole possa comportare l’annullamento del provvedimento solo in caso di provata violazione dei diritti di difesa.
Il CdS ha però sottolineato come la caducazione automatica oltre il termine ragionevole assolva anche ad una essenziale funzione di tutela della certezza giuridica, come anche riconosciuto dalla stessa CGUE nel caso Caronte. Il CdS ha inoltre sottolineato che la stessa Corte Costituzionale italiana ha confermato, con la sentenza n. 151/2021, che l’esaurimento del potere sanzionatorio dell’amministrazione a seguito dell’inutile decorso di un termine fissato dalla legge costituisce una garanzia imprescindibile, nonché diretta attuazione degli articoli 24 e 97 della Costituzione.
La valutazione dell’Ordinanza conduce ad un giudizio misto. Da un lato, sulla questione del termine di 90 giorni, l’Ordinanza si traduce in sostanza in una richiesta alla CGUE di riesaminare la sentenza Caronte e si attende ora di vedere se la CGUE sarà disposta a riaprire il caso oppure se, secondo la prassi giurisprudenziale, dichiarerà la questione inammissibile. Dall’altro lato, sulla questione del termine ragionevole, il CdS si interroga su un tema di notevole rilievo, la cui importanza è destinata a crescere in futuro e che sembra suscitare un conflitto fra sistema giuridico italiano ed europeo, potenzialmente anche di natura costituzionale.
Massimiliano Gelmi
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Intese e settore delle telecomunicazioni – Il CdS ha dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse l’appello di Open Fiber S.p.A. avverso la precedente sentenza del TAR Lazio, avente ad oggetto gli impegni resi in relazione al progetto di rete FiberCop
Con la sentenza pubblicata lo scorso 13 maggio (la Sentenza), il Consiglio di Stato (CdS) ha dichiarato improcedibile in sede di appello il ricorso presentato da Open Fiber S.p.A. (Open Fiber) volto ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio), già trattata nella precedente Newsletter, con la quale si erano rigettate le censure mosse da Open Fiber al provvedimento di chiusura con accettazione degli impegni (il Provvedimento) adottato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM). L’AGCM aveva ritenuto idonei a ripristinare il regime concorrenziale nei mercati all’ingrosso delle telecomunicazioni gli impegni presentati dalle società Telecom Italia S.p.A. (Tim), FiberCop S.p.A. (FiberCop), Fastweb S.p.A. (Fastweb), Tiscali Italia S.p.A. (Tiscali), nonché dal fondo private equity KKR & Co. Inc (KKR) e la sua controllata Teemo Bidco S.à r.l. (Bidco), nell’ambito dell’offerta pubblica di coinvestimento presentata da Tim per il finanziamento del progetto infrastrutturale di FiberCop, joint venture finalizzata a sviluppare in Italia una rete secondaria a banda ultra-larga in fibra ottica, costituita tra Tim, Fastweb e il fondo KKR (tramite Bidco).
L’offerta pubblica di coinvestimento consentiva una partecipazione al progetto infrastrutturale subordinandola all’osservanza di alcune condizioni, tra cui l’assunzione di un vincolo decennale all’acquisto di un minimo garantito pay per use di accessi individuato per ciascun comune in un minimo di linee pari al 10% delle unità immobiliari; tale condizione, combinata alla circostanza che Tim fosse l’unico operatore di mercato verticalmente integrato, conduceva l’AGCM a temere che vi fosse il rischio di “ridurre la contendibilità della domanda nel mercato all’ingrosso”. Tuttavia, il procedimento si era concluso senza accertamento dell’infrazione, in virtù dell’accettazione di impegni – quali, tra gli altri, la riduzione della percentuale minima di acquisto all’8% e la riduzione dell’area geografica interessata all’adesione al progetto.
Nel proprio appello OpenFiber principalmente deduce l’omesso o errato esame dei profili di lesività sul mercato che sarebbero persistiti indipendentemente dall’attuazione degli impegni proposti, lamentando altresì l’assenza di un esame da parte del TAR Lazio della effettiva idoneità di tali impegni a scongiurare qualsiasi alterazione concorrenziale. La lacunosità dei profili valutativi emergenti dalla sentenza di primo grado si ascriverebbe alla natura “sui generis” del Provvedimento di accettazione degli impegni, la cui precarietà escluderebbe la possibilità di realizzare un sindacato penetrante in ordine alla propria ragionevolezza, logicità e coerenza, dal momento che attribuirebbe all’AGCM stessa un potere di ritiro delle condizioni accettate nell’eventualità in cui la concorrenza risulti, nonostante tali impegni, egualmente compromessa.
L’aspetto tuttavia più significativo che emerge da tale giudizio riguarda il mutamento delle circostanze di fatto verificatosi a seguito del giudizio di primo grado – e, in parte, anche successivamente alla proposizione dell’appello – ossia: (i) il 3 febbraio 2024, Tim ha comunicato l’abbandono ufficiale del progetto di coinvestimento, in considerazione di una delibera dell’AGCOM che ha ritenuto tale progetto non conforme alle previsioni del Codice europeo delle Comunicazioni Elettroniche e (ii) il 12 febbraio 2024, Tim ha altresì comunicato di aver avviato l’operazione di cessione della rete fissa alla società Optics Bidco S.p.A., inclusa la rete passiva di trasporto e di trasmissione. Conseguentemente, era stata presentata istanza di revoca degli impegni da Tim in quanto, non vantando più alcun diritto sulla rete infrastrutturale, non disponeva di alcun potere in ordine alla gestione degli accessi dei concorrenti alla stessa, “trovandosi in una impossibilità materiale di potere ancora offrire un contributo all’ottemperanza agli impegni assunti all’esito del procedimento”. La revoca era stata quindi deliberata dall’AGCM con provvedimento del 17 dicembre 2024, impugnato da Open Fiber dinanzi al TAR Lazio in un giudizio attualmente pendente.
Nonostante ciò, Open Fiber chiarisce il proprio interesse alla definizione della controversia corrente in appello, limitatamente ai profili attinenti alla carente istruttoria in primo grado con riguardo agli effetti anticoncorrenziali derivanti da uno degli accordi oggetto di accertamento, ossia il MOU Fastweb. Quest’ultimo è un contratto di servizio per la fornitura di accesso alla rete tra Fastweb e FiberCop, ancora in vigore, e secondo il ricorrente logicamente svincolato dal progetto di coinvestimento di Tim venuto meno.
In conclusione il CdS, pur riconoscendo come meritevoli di esame i motivi dedotti dalla parte ricorrente, che forse avrebbero dovuto indurre l’AGCM a ritirare solo parzialmente la delibera di accettazione degli impegni – confermando la sopravvivenza, seppur parziale e ridotta, dello scenario anticoncorrenziale che ne aveva condotto alla relativa adozione – afferma che l’atto di ritiro ha assorbito l’intero reticolo di accordi che sottostava all’istruttoria svolta dall’AGCM.
Maria Elena Ardita
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e settore dell’abbigliamento – L’AGCM ha chiuso con impegni l’istruttoria avviata nei confronti di alcune società del gruppo Dior per presunte dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale ritenute non veritiere
Lo scorso 13 maggio, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha accettato gli impegni presentati dalle società Christian Dior Couture S.A. (Dior SA), Christian Dior Italia S.r.l. (Dior Italia) e Manufactures Dior S.r.l., quest’ultima attiva nella produzione dei prodotti di abbigliamento e dei relativi accessori (MD e, congiuntamente con Dior SA e Dior Italia, Dior) per far venir meno i possibili profili di illiceità connessi ad una pratica commerciale ritenuta scorretta. A seguito di un’istruttoria avviata nel 2023, sarebbe emersa la non veridicità delle dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale rese al pubblico attraverso il sito internet di Dior. In particolare, Dior avrebbe affidato la produzione di alcuni dei suoi articoli ad opifici i quali, secondo quanto ipotizzato dall’AGCM, non avrebbero rispettato i principi racchiusi nelle dichiarazioni rese ai consumatori, facendo lavorare i propri dipendenti in condizioni sanitarie precarie, oltre i limiti di legge e, oltretutto, senza che venissero garantiti salari idonei.
Gli impegni presentati da Dior sono diretti a raggiungere tre obiettivi principali: (i) migliorare la trasparenza delle proprie dichiarazioni in favore del pubblico; (ii) rafforzare i propri processi aziendali per non incorrere nuovamente in dinamiche di questo tipo; (iii) sostenere attivamente le iniziative volte a promuovere gli standard etico-legali da rispettare all’interno della filiera produttiva italiana.
In concreto, per rendere sufficientemente trasparenti le dichiarazioni rese sul proprio sito internet, Dior si è impegnata a chiarirne il contenuto aumentando le informazioni fornite sull’organizzazione da parte di MD della filiera produttiva e indicando quali siano i criteri di scelta dei fornitori esterni e delle possibili conseguenze connesse al mancato rispetto degli standard etico-legali.
Rispetto alle proprie procedure aziendali, Dior si è impegnata a potenziare il proprio processo di selezione e controllo dei fornitori di MD, introducendo innanzitutto nuove tipologie di audit che si affianchino a quelle già esistenti e rendendo più chiari i diritti e i doveri loro connessi qualora questi venissero scelti. Inoltre, prevede la creazione di un reparto dedicato all’interno di MD con il compito di gestire e supervisionare tutte le attività di audit, inclusa la definizione e il monitoraggio di eventuali piani correttivi imposti ai fornitori.
Infine, Dior selezionerà enti o organizzazioni che si occuperanno di realizzare progetti concreti per identificare le vittime dello sfruttamento lavorativo sul territorio italiano, ai quali si garantirà un percorso assistenziale, di protezione e di formazione, a prescindere dalla società di appartenenza. Il finanziamento assicurato da Dior sarà pari a 2 milioni di Euro da destinarsi in 5 anni a decorrere dalla data di accettazione degli impegni.
Secondo l’AGCM, gli impegni sono adeguati in quanto considerano tutti gli aspetti oggetto del procedimento e offrono soluzioni efficaci alle problematiche riscontrate. In generale, viene sottolineato che, quando un’azienda diffonde dichiarazioni etiche e sociali capaci di attrarre un numero crescente di consumatori sensibili a tali valori, la normativa a tutela del consumatore richiede che tali impegni siano tradotti in azioni concrete e coerenti, andando oltre il semplice rispetto delle norme di legge.
Giacomo Perrotta
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Appalti, concessioni e regolazione / Tutela paesaggistica e settore delle rinnovabili – Il TAR Lazio ha parzialmente annullato il decreto ministeriale che dettava la disciplina per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili
Con la sentenza del 13 maggio 2025, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (TAR Lazio) ha parzialmente annullato il Decreto Ministeriale (Decreto Aree Idonee o DM) che dettava la disciplina per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili (impianti FER).
Come noto, l’Italia ha assunto specifici obblighi in sede europea con riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili (il riferimento è ai pacchetti “Fit for 55” e “Repower UE”). In attuazione delle direttive europee, il d.lgs. n. 199/2021 ha definito importanti misure per promuovere l’uso dell’energia da fonti rinnovabili e per accelerare il percorso di crescita sostenibile del Paese, in coerenza con gli obiettivi europei di decarbonizzazione del sistema energetico al 2030 e di completa decarbonizzazione al 2050.
Una delle maggiori novità del nuovo quadro normativo è che le Regioni avrebbero dovuto provvedere all’individuazione delle aree idonee e non idonee non più nell’ambito di un procedimento amministrativo, ma con legge regionale, sulla scorta dei principi e criteri fissati con il decreto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase), di concerto con il Ministero della cultura e il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste e previa intesa in sede di Conferenza unificata.
In tale contesto, il Mase ha pubblicato il suo decreto in data 2 luglio 2024, ma numerosi operatori di settore e la loro associazione di categoria lo hanno impugnato. Il Tar Lazio ha accolto il ricorso con la sentenza in commento che esprime alcuni principi in materia.
Innanzitutto, anche nel rinnovato assetto normativo la categoria di “area non idonea” non è sinonimo di preclusione assoluta alla realizzazione di impianti FER, ma solo indice rivelatore di possibili esigenze di tutela di interessi sensibili. In altre parole, tale qualificazione impedisce al proponente di beneficiare delle agevolazioni e delle semplificazioni procedimentali previste dalla legge, mentre richiede all’Amministrazione di meglio approfondire e valutare – in sede di autorizzazione – quale sarà l’effettivo impatto dei progetti proposti sulla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e dei beni culturali. Dunque, l’Amministrazione non potrà limitarsi a operare una valutazione in astratto (cioè, non potrà giustificare l’eventuale rigetto di un progetto in base alla mera qualificazione dell’area in cui esso insiste), ma dovrà comunque effettuare una valutazione in concreto caso per caso.
In conformità alla consolidata giurisprudenza costituzionale, il TAR Lazio ritiene legittima la devoluzione alle Regioni del potere di individuare con legge regionale le aree non idonee, purché ciò non sia rimesso al libero arbitrio delle singole Regioni, ma avvenga sulla base dei principi fondamentali stabiliti da un atto normativo statale. Infatti, in questa materia, le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia. Invece, i criteri stabiliti dal Decreto Aree Idonee sono reputati illegittimi perché non sufficientemente specifici, soprattutto per quanto riguarda l’individuazione delle aree non idonee, laddove mancano del tutto parametri tecnici riscontrabili oggettivamente (quali la tipologia di fonte rinnovabile, la taglia dell’impianto, la concentrazione di impianti FER nella medesima area, etc.). In questo modo, il DM devolve integralmente alle Regioni l’onere di individuare le aree idonee e non idonee in assenza di principi guida, ponendo le basi per un’applicazione della disciplina disomogenea a livello territoriale.
Secondo il TAR Lazio, poi, il DM Aree Idonee è altresì illegittimo laddove attribuisce alle Regioni la facoltà di prevedere fasce di rispetto per i beni tutelati fino a 7 km dal relativo perimetro. Infatti, questa previsione viola il principio di proporzionalità per due motivi. In primo luogo, individuando semplicemente il range (fino a 7 km), senza neppure differenziare per tipologie di impianto, il DM pone un criterio troppo generico. In secondo luogo, il DM attribuisce alle Regioni la facoltà di prevedere limiti persino più ampi di quelli stabiliti a monte dal legislatore nazionale (cioè, 3 km per gli impianti eolici e 500 metri per gli impianti fotovoltaici). Così facendo, però, le Regioni finirebbero con l’esercitare una competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Da ultimo, il DM Aree Idonee è altresì illegittimo perché non ha dettato una disciplina transitoria adeguata, che salvaguardi i procedimenti di autorizzazione degli impianti FER in corso di svolgimento, nelle more dell’approvazione delle leggi regionali. In particolare, il DM non prende in adeguata considerazione l’ipotesi che, una volta approvate le leggi regionali, possa mutare la qualificazione dell’area (da idonea a non idonea) in cui è ubicato l’impianto (non tutelando il proponente che, nel frattempo, abbia beneficiato delle agevolazioni procedimentali previste dalla legge per le aree idonee).
In attesa dell’eventuale appello, il MASE dovrà presto riattivarsi per adottare un nuovo Decreto Aree Idonee, depurato dai profili di illegittimità censurati dal TAR Lazio, dettando principi sufficientemente specifici, che siano in grado di orientare la competenza legislativa delle Regioni.
Niccolò Ferracuti