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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 3 marzo 2025

Diritto della concorrenza – Europa / Abusi e settore digitale – La Corte di Giustizia si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale sollevato dal Consiglio di Stato circa la presunta abusività del rifiuto di Google di concedere l’accesso alla piattaforma Android Auto

Lo scorso 25 febbraio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la CGUE) si è pronunciata nella causa C-233/23, in riferimento al rinvio pregiudiziale sollevato dal Consiglio di Stato (il CdS) nell’ambito dell’appello di Alphabet (Google) tesa ad ottenere l’annullamento della sentenza del giudice di prima istanza che aveva confermato la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM) che aveva sanzionato il rifiuto di Google di garantire l’interoperabilità della sua piattaforma Android Auto con l’applicazione JuicePass di Enel X Italia (Enel X) (la Decisione). Le questioni poste all’attenzione della CGUE erano volte, inter alia, ad ottenere chiarimenti circa la nozione di indispensabilità dell’accesso ad una piattaforma digitale per poter operare nel mercato e gli obblighi di una impresa in posizione dominante nei confronti di altre imprese nei mercati a valle.

Ripercorrendo brevemente i fatti, nel 2018 Enel X Italia aveva sviluppato l’app JuicePass, progettata per consentire agli utenti di localizzare e prenotare stazioni di ricarica per veicoli elettrici. Enel X aveva richiesto a Google l’integrazione dell’applicazione con Android Auto, il sistema che permette di accedere ad applicazioni tramite lo schermo di bordo delle automobili. Google ha rifiutato, adducendo l’assenza di un modello compatibile per questo tipo di applicazioni e avanzando motivi legati alla sicurezza e all’allocazione delle risorse di sviluppo.

Nel 2021, ad esito di un procedimento istruttorio, l’AGCM aveva sanzionato Google con un’ammenda di oltre 102 milioni di euro, ritenendo che il rifiuto costituisse un abuso di posizione dominante volto, inter alia, a favorire i servizi di proprietà di Google a discapito della concorrenza. Google ha impugnato tale Decisione dinanzi il Tribunale Amministrativo del Lazio (il Tar Lazio), che ne ha confermato la legittimità, e poi in appello dinanzi il CdS. Quest’ultimo ha rinviato la questione alla CGUE per chiarimenti sull’applicazione dell’articolo 102 TFUE. Sui singoli passaggi della vicenda si rimanda alla presente Newsletter che si era occupata in precedenza sia della Decisione, sia della sentenza del Tar Lazio nonché del rinvio pregiudiziale.

La CGUE ha ora risposto in maniera articolata alle questioni pregiudiziali sollevate dal CdS, fornendo indicazioni importanti sull’applicazione dell’articolo 102 TFUE, con particolare riguardo alla fattispecie del c.d. rifiuto a contrarre.

In primis, la CGUE ha fornito alcune indicazioni circa le condizioni per l’accesso alla piattaforma (la Prima questione). La CGUE ha chiarito che, sebbene in genere l’abuso derivante da un rifiuto di accesso presupponga l’indispensabilità dell’input negato per l’attività dell’impresa richiedente (principio consolidato nella c.d. sentenza Bronner), tale requisito non è assoluto. Nello specifico, la CGUE ha chiarito che i criteri della giurisprudenza Bronner sono stati stabiliti per i casi in cui l’impresa dominante abbia sviluppato il bene o servizio richiesto solo per il proprio uso, e dove, se non fosse applicato il criterio dell’indispensabilità ma fosse reso più facile l’accesso ai terzi, “…un’impresa dominante sarebbe meno propensa a investire in infrastrutture efficienti se si potesse vedere costretta, su semplice richiesta dei suoi concorrenti, a ripartire con loro gli utili derivanti dai propri investimenti…”. Diversamente, nel caso di specie, l’infrastruttura era stata proprio sviluppata nella prospettiva di consentirne un utilizzo da parte di imprese terze. La CGUE ha stabilito che in questo caso un rifiuto può costituire un abuso anche quando la piattaforma non è strettamente indispensabile, ma il suo accesso migliorerebbe sensibilmente la competitività dell’applicazione concorrente (e di conseguenza un rifiuto limiterebbe la concorrenza sui meriti e danneggerebbe i consumatori).

Inoltre, la CGUE si è pronunciata anche in relazione alla questione circa gli effetti anticoncorrenziali del rifiuto (la Seconda questione). Il fatto che JuicePass e altre applicazioni concorrenti siano rimaste attive sul mercato non esclude automaticamente la natura abusiva del rifiuto. L’articolo 102 non richiede che un comportamento abbia effettivamente eliminato un concorrente, ma solamente che fosse idoneo a limitare la concorrenza. Pertanto, la CGUE ha precisato che nel caso di specie è necessario verificare se il comportamento di Google abbia ostacolato o ritardato lo sviluppo della concorrenza e dell’innovazione nel mercato rilevante, indipendentemente dalla sopravvivenza di concorrenti (che peraltro resta un indizio nell’ambito della valutazione sulla idoneità della condotta a produrre gli asseriti effetti preclusivi).

Google aveva sostenuto che il rifiuto fosse giustificato dall’assenza di un modello di interoperabilità per le applicazioni relative alla ricarica elettrica. La CGUE, nel risponde alla terza e quarta domanda, ha affermato che una simile giustificazione può essere generalmente accettabile solo se l’interoperabilità compromette l’integrità della piattaforma, la sicurezza o risulta tecnicamente impossibile. Se invece l’ostacolo è superabile con uno sviluppo ragionevole, l’impresa dominante deve impegnarsi a creare il modello entro un termine congruo, eventualmente a fronte di un corrispettivo economico adeguato.

Infine, la CGUE si è espressa circa la necessità di una esplicita definizione del mercato rilevante, a valle di quello dove l’impresa detiene una posizione dominante, nel quale valutare l’idoneità della condotta abusiva a generare effetti restrittivi. L’AGCM, nel caso di specie, si era limitata a parlare genericamente di “spazio concorrenziale”. La CGUE ha confermato che la esatta definizione del mercato a valle è importante, ma non strettamente necessaria. In un settore in rapida evoluzione, può essere sufficiente individuare un mercato potenziale, anche se non ancora ben definito.

La Sentenza risulta di notevole rilevanza, soprattutto per i mercati digitali, inserendosi in un filone teso a ridurre la rilevanza del requisito dell’indispensabilità. Resta da vedere quale sarà l’impatto di tale pronuncia, non solo nel giudizio dinanzi al CdS, ma più in generale per gli sviluppi futuri della giurisprudenza UE in materia di abuso di posizione dominante.

Fabio Bifarini

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Abusi e settore della assistenza aeroportuale – La Corte di Giustizia ha stabilito che la direttiva 96/67/CE relativa all’accesso al mercato dei servizi di assistenza a terra non osta all’applicazione dell’articolo 102 TFUE

Con la sentenza del 27 febbraio, la Corte di Giustizia Europea (la CGUE) si è pronunciata sulla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte d’Appello di Bucarest (la Corte d’Appello) riguardante l’interpretazione degli artt. 1, 6 e 7 della Direttiva 96/67/CE del Consiglio (la Direttiva), in tema di accesso al mercato dei servizi di assistenza a terra negli aeroporti della Comunità, e dell’art.102 TFUE.

La questione è stata sollevata in seguito ad una sanzione inflitta dall’Autorità della concorrenza rumena (il Consiglio) all’azienda autonoma dell’aeroporto internazionale “Avram Iancu” di Cluj (l’Azienda autonoma). La condotta illecita era contraria all’art. 102 TFUE e all’art. 6 della legge sulla concorrenza rumena, entrambi riguardanti il divieto di abuso di posizione dominante. La vicenda ha origine in relazione all’attività di gestione del citato aeroporto, nel quale l’Azienda autonoma fornisce anche alcune categorie di servizi a terra/handling: nel periodo dal 2015 al 2017, aveva impedito alla società Romanian Airport Services SA (la RAS) – secondo quanto accertato dal Consiglio – di accedere all’infrastruttura aeroportuale per fornire servizi di assistenza a terra, abusando della propria posizione di gestore dell’infrastruttura aeroportuale.

L’Azienda autonoma ha quindi chiesto l’annullamento della decisione del Consiglio alla Corte d’Appello, basando la sua richiesta principalmente sulla prevalenza della normativa di settore rispetto al diritto generale in tema di concorrenza. La Direttiva ha lo scopo di liberalizzare il mercato dell’assistenza a terra, ma all’art. 1 vengono specificate delle soglie di traffico aereo e di merci che determinano l’applicabilità o meno di tale normativa nei confronti di un aeroporto. L’aeroporto di Cluj, negli anni relativi alla condotta contestata, non aveva raggiunto queste soglie e, proprio per questo, l’Azienda autonoma aveva ritenuto “non doveroso” consentire l’accesso alla RAS, trovandosi al di fuori dell’ambito di applicazione della Direttiva, e degli obblighi di liberalizzazione da essa discendenti.

Investita, mediante rinvio pregiudiziale, della questione dei rapporti tra tale disciplina di settore e l’art. 102 TFUE, la CGUE ha risposto specificando innanzitutto l’obiettivo della Direttiva, ossia quello di ampliare i confini del mercato e, pur riconoscendo l’esistenza dei limiti applicativi come descritti sopra, ha affermato l’impossibilità per una normativa di settore di poter precludere l’applicazione della disciplina sulla concorrenza. Al riguardo, la CGUE ha precisato come la normativa di settore abbia rilevanza, al più, come criterio da tenere in conto nel valutare se un comportamento sia abusivo o meno in tema di concorrenza, riconoscendole quindi una funzione di supporto, invece che prescrittiva e/o limitativa.

La CGUE ha quindi concluso interpretando la Direttiva come non ostativa all’applicazione della disciplina sull’abuso di posizione dominante, così ribadendo – in linea con la giurisprudenza consolidata sul punto – il valore imprescindibile del diritto primario antitrust.

Giacomo Perrotta

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Diritto della concorrenza e valutazione ex post dei rimedi – La Commissione europea ha pubblicato uno studio sull’attuazione e l’efficacia dei rimedi antitrust

La Commissione europea (la Commissione), nel contesto più ampio di molteplici studi sullo stato della concorrenza nella UE, ha recentemente pubblicato il rapporto finale sui rimedi antitrust da essa adottati negli ultimi anni (il Rapporto).

Il Rapporto analizza le 108 decisioni assunte dalla Commissione nei vent’anni trascorsi dall’entrata in vigore del Regolamento 1/2003 (il Regolamento), concernente l’applicazione degli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, fino al 2023 (esclusi i casi più classici di cartello). Nel complesso, la metà delle decisioni hanno riguardato violazioni dell’articolo 101, mentre l’altra metà concernevano infrazioni dell’articolo 102 TFUE. Parimenti, in circa metà dei casi la Commissione ha direttamente proibito l’intesa o l’abuso, mentre gli altri sono stati chiusi con impegni proposti dalle imprese soggette a istruttoria. Nel complesso, il numero delle decisioni adottate annualmente è in calo, soprattutto a partire dal secondo mandato Vestager.

Relativamente ai casi chiusi con impegni, il Rapporto sottolinea una decisa preferenza della Commissione verso l’adozione di rimedi comportamentali a tutela della concorrenza, piuttosto che l’impiego di misure strutturali; ciò è particolarmente vero nel settore delle comunicazioni e dei servizi della società dell’informazione, che complessivamente rappresenta il settore maggiormente raggiunto dalle decisioni della Commissione.

Viceversa, i settori delle c.d. utilities (fornitura di elettricità e gas, acqua, smaltimento rifiuti e trasporti) – tutti accomunati dal fatto di essere caratterizzati da economie di scala e alti costi di realizzazione delle infrastrutture necessarie all’erogazione dei servizi – appaiono quelli più colpiti da misure integralmente o parzialmente strutturali (pur queste ultime rimanendo minoritarie rispetto a quelle comportamentali).

Il Rapporto indaga anche l’avvenuta attuazione (o meno) dei rimedi adottati in 12 casi specifici, sia chiusi con impegni che non e selezionati in quanto ritenuti sufficientemente rappresentativi nel più ampio gruppo dei 108, valutando altresì la loro efficacia nell’aver risolto le preoccupazioni manifestate dalla Commissione al momento dell’adozione. I risultati dell’indagine suggeriscono che solo 9 dei 12 rimedi sarebbero poi stati effettivamente attuati dalle imprese, mentre solo 5 sarebbero risultati efficaci a ripristinare la concorrenza.

Nel complesso, il Rapporto registra quattro principali difficoltà della Commissione nel selezionare i migliori rimedi da accettare e/o adottare: (i) in primis, far aderire correttamente il rimedio alle finalità di superamento delle criticità sottese a ciascuna decisione, (ii) il dover adottare in via prioritaria – ai sensi del Regolamento – i rimedi comportamentali rispetto a quelli strutturali, (iii) le complessità legate al valutare se alimentare o meno le trattative necessarie alla risoluzione di un caso con impegni, e (iv) la laboriosa e costosa vigilanza sull’effettiva implementazione dei rimedi (specialmente per le misure comportamentali).

A tal proposito, il Rapporto formula 18 suggerimenti per migliorare l’adozione e l’amministrazione dei rimedi antitrust in futuro, tra cui spiccano la rimozione della gerarchia normativa fra rimedi comportamentali e strutturali, la separazione delle decisioni di divieto di un illecito anticoncorrenziale da decisioni che rendono obbligatori impegni e l’incremento del ricorso ai procedimenti cautelari e alla nomina di monitoring trustees.

Resta ora da vedere in che misura, e con quali tempistiche, tali proposte possano riflettersi in proposte di modifica della normativa antitrust vigente.

Riccardo Ciani

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Diritto della concorrenza – Italia / Abusi e settore dell’accesso a Internet – La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di Tim avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma l’aveva condannata a risarcire KPNQ per € 5,6 milioni

Con la sentenza n. 1923 pubblicata lo scorso 28 gennaio (la Sentenza), la Corte Suprema di Cassazione (la Cassazione) ha rigettato il ricorso presentato dalla società Telecom Italia S.p.A. (TIM) avverso la precedente sentenza n. 2650/2021 della Corte d’Appello di Roma, la quale aveva accolto parzialmente il ricorso di TIM ma ridimensionando l’entità del danno riconosciuto a KPNQwest Italia S.p.A. (KPNQ) – oggi COMM 3000 S.p.A. – dal giudice di primo grado.

TIM svolge sia servizi di accesso all’ingrosso, sia servizi retail, di connettività a banda larga per la trasmissione dati alla clientela business: di conseguenza TIM ha sia il ruolo di fornitore c.d. wholesale e allo stesso tempo concorre nel mercato a valle con altri operatori, suoi clienti nel mercato a monte.

La domanda di KPNQ di risarcimento dei danni perveniva al giudice civile di primo grado a seguito della decisione della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’AGCM), la quale nel maggio del 2013, a chiusura del procedimento A428, irrogava due sanzioni amministrative pecuniarie a TIM per due abusi di posizione dominante. L’AGCM aveva contestato a TIM illeciti anti competitivi, posti in essere nel triennio 2009-2011, per aver predisposto un processo di evasione degli ordini di accesso ad Internet dei concorrenti più oneroso e meno efficiente di quello previsto per le divisioni commerciali della stessa società. Questa discriminazione era stata ritenuta dall’AGCM idonea a pregiudicare la concorrenza e quindi sanzionata.

Nonostante le argomentazioni avanzate da TIM, il Tribunale aveva accolto parzialmente le domande attrici: (i) emettendo una inibitoria in capo a TIM, (ii) condannando la stessa al risarcimento dei danni, liquidati in euro 377.084 per danno emergente e in euro 8.000.000 per lucro cessante.

La Corte d’Appello di Roma – dinnanzi alla quale TIM ha impugnato la sentenza del Tribunale – ha solo parzialmente accolto l’appello, rideterminando il lucro cessante nella minor somma di euro 5.621.494,80, oltre interessi e rivalutazione. La decisione si è basata sulla relazione del Consulente Tecnico d’Ufficio, che ha utilizzato un metodo di calcolo del danno basato sull'andamento delle quote di mercato assumendo come termine di paragone controfattuale le dinamiche competitive di un altro paese (segnatamente, il Regno Unito). Questo metodo è stato ritenuto più preciso per stimare la differenza tra le quote di mercato italiane che le società avrebbero detenuto in assenza delle pratiche abusive di TIM e quelle effettivamente detenute.

TIM proponeva ricorso per Cassazione, concentrandosi, fondamentalmente, su tre motivi: (i) la presunta mancante dimostrazione del nesso causale tra l’illecito antitrust e i danni subiti da KNPQ; (ii) l'erronea interpretazione e applicazione dei principi dell'onere della prova nella responsabilità extracontrattuale in relazione all'elemento soggettivo dell'illecito aquiliano e (iii) il presunto difetto di motivazione relativo al computo del termine di prescrizione, che, a parere di TIM, sarebbe dovuto iniziare a decorrere da un momento precedente alla pubblicazione della delibera di condanna dell’AGCM.

Nessuna delle censure è stata accolta dalla Cassazione che, rigettando il ricorso presentato da TIM, ha confermato la correttezza delle argomentazioni e della decisione della Corte d’Appello.

In particolare secondo la Cassazione (i) in merito al nesso di causalità, come affermato dalla Corte d’Appello, essendo il danno causato da condotte discriminatorie adottate nella gestione dei processi di attivazione e non nei rifiuti in re ipsa, il metodo di quantificazione del danno risulta adeguato; (ii) non vi sono ragioni per credere che l'illecito antitrust si sottragga alla regola per cui, il risarcimento del danno aquiliano esige il dolo o la colpa del danneggiante; (iii) il principio di equivalence of output, di regolamentazione di settore, non giustificava la farraginosità insita nella procedura verso l'esterno che era stata riscontrata dall’AGCM. Per questa ragione il Giudice d'Appello confermava la presenza della colpa come elemento soggettivo; (iv) per quanto riguarda il difetto di motivazione, i motivi devono essere disattesi, poiché la Corte d’Appello aveva – con ragione – respinto l’eccezione di prescrizione proposta da TIM. In particolare su questo ultimo punto, la Cassazione afferma che il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria coincide con il momento in cui il titolare sia stato adeguatamente informato – o si possa pretendere ragionevolmente che lo sia stato – non solo dell'altrui violazione, ma anche dell'esistenza di un possibile danno ingiusto. Per la valutazione della prescrizione in questione – che deve essere condotta caso per caso e non in astratto – è stato attribuito rilievo a elementi che, al momento dell' instaurazione del procedimento antitrust, sfuggivano alla conoscenza di KPNQ, che, per avere completa percezione del fatto illecito dannoso, avrebbe dovuto attendere le pubblicazione della delibera dell’AGCM, individuando quindi tale momento quale inizio del decorso per i termini per la prescrizione.

Alberto Messeri

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Appalti, concessione e regolazione / “Contributo di solidarietà” e settore energetico – La Corte Costituzionale chiede alla Corte di Giustizia se la legge italiana che tassa gli extra-profitti derivanti dalla guerra in Ucraina viola il diritto europeo

Con l’ordinanza del 20 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha sollevato una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (la CGUE) in relazione al contributo di solidarietà che il legislatore italiano ha imposto nel settore energetico in applicazione del regolamento europeo 2022/1854 (il Regolamento). In particolare, la Corte costituzionale ha sollevato una questione sulla conformità di questo contributo al Regolamento europeo atteso che il legislatore italiano ne ha esteso l’applicazione anche a soggetti che, pur operando nel settore energetico, non erano contemplati nel Regolamento.

Il Regolamento nasce nel 2022 quando in Europa, a seguito dell’invasione dell’Ucraina, petrolio e gas naturale hanno raggiunto prezzi molte volte superiori alla media di mercato, innescando una grave crisi energetica. In tale contesto, il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento sulla base dell’articolo 122, paragrafo 1 TFUE, il quale consente, in uno spirito di solidarietà fra Stati membri, l’adozione di misure idonee a far fronte a gravi difficoltà nell’approvvigionamento di certi prodotti, in particolare nel settore energetico.

La duplice finalità del Regolamento è quella, da un lato, di ridurre i prezzi dell’energia per famiglie e imprese e, dall’altro, di evitare la frammentazione del mercato energetico che sarebbe derivata da una risposta disomogenea fra i vari Stati membri. A tal fine, il Regolamento ha istituito un “contributo di solidarietà” in capo a quei soggetti attivi nel settore energetico che hanno realizzato extra-profitti a seguito della guerra in Ucraina (il Contributo di Solidarietà). Più nello specifico, il Regolamento va a colpire gli operatori attivi nei mercati a monte dell’estrazione e della raffinazione di petrolio greggio, gas naturale e carbone (i Soggetti Upstream).

Il Regolamento lascia tuttavia agli Stati membri la scelta sulle specifiche modalità della sua attuazione. Inoltre, il Regolamento offre agli Stati membri la possibilità di adottare “misure equivalenti” al Contributo di Solidarietà, che perseguano le medesime finalità, con regole simili, e che portino a introiti uguali o superiori a quelli che sarebbero derivati dall’applicazione del Regolamento.

Il legislatore italiano ha dato attuazione al Regolamento, con la legge di bilancio del 2023 (la Legge di Bilancio). Esso però non ha imposto il Contributo di Solidarietà sugli extra-profitti dei Soggetti Upstream, ma ha previsto una misura equivalente a carico degli operatori attivi nei mercati a valle del commercio e della distribuzione di derivati del petrolio e di energia elettrica (i Soggetti Downstream) ossia di operatori che non erano contemplati nel Regolamento.

Si è dunque posto il tema del se la misura imposta con la Legge di Bilancio sia conforme o meno al Regolamento. La questione è giunta alla Corte Costituzionale, che è chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della legge italiana con l’articolo 117, comma 1 della Costituzione, nella misura in cui la Legge di Bilancio avrebbe violato il Regolamento, violando così anche l’obbligo costituzionale di non contravvenire al diritto europeo.

In tale contesto, la Corte Costituzionale ha sollevato un quesito pregiudiziale di interpretazione con la CGUE, chiedendo se la Legge di Bilancio possa essere misura equivalente ai sensi del Regolamento. Ad avviso della Corte Costituzionale, il dubbio sorge dalla presenza di elementi contrastanti che depongono sia a favore che contro l’equivalenza.

Quanto agli elementi contro l’equivalenza, la Corte Costituzionale ha evidenziato sia il dato letterale – che chiaramente limita l’applicazione del Contributo di Solidarietà ai soli Soggetti Upstream – che la finalità di prevenire una frammentazione del mercato dell’energia. Infatti, spostando il Contributo di Solidarietà sui Soggetti Downstream, il legislatore italiano potrebbe aver distorto tale mercato, di fatto compromettendo l’omogeneità della risposta europea alla crisi energetica.

Quanto agli elementi a favore dell’equivalenza, la Corte Costituzionale ha rilevato che la finalità di evitare la frammentazione del mercato va controbilanciata con la finalità solidaristica del Contributo di Solidarietà, che di fatto si traduce nel supporto a famiglie e imprese colpite dal massiccio rialzo dei prezzi. Inoltre, la Corte Costituzionale ha chiesto alla CGUE se la situazione peculiare del mercato italiano dell’energia sia rilevante nel valutare l’equivalenza della misura. Infatti, da un lato, a causa della forte dipendenza dal gas naturale, l’Italia ha sofferto più di altri Stati membri i rincari energetici; dall’altro lato, non ci sono significativi Soggetti Upstream in Italia su cui far gravare il Contributo di Solidarietà, da cui l’esigenza di colpire i Soggetti Downstream per finanziare i costi delle misure di supporto a famiglie e imprese.

Il quesito è dunque ora pendente di fronte alla CGUE, insieme a due ulteriori questioni pregiudiziali sulla validità del Regolamento stesso, sollevate rispettivamente dalla Corte Costituzionale belga e della Corte Suprema irlandese. La Corte Costituzionale ha tuttavia suggerito che, anche qualora la CGUE dovesse dichiarare che la Legge di Bilancio non è misura equivalente (o addirittura dovesse invalidare il Regolamento), il Contributo di Solidarietà potrebbe rimanere legittimo, in quanto adottato nell’ambito delle competenze fiscali esclusive del legislatore italiano.

Massimiliano Gelmi