Skip to main content

Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione - 27 novembre 2023

Diritto della concorrenza – Europa / Abusi e settore delle comunicazioni – Le conclusioni dell’avvocato generale Collins in relazione agli “interessi di mora” per il rimborso di una sanzione antitrust ridotta in appello

Lo scorso 23 novembre l’Avvocato Generale (l’AG) Collins ha rassegnato le proprie conclusioni in merito all’appello presentato da parte della Commissione Europea (la Commissione) nei confronti della sentenza del Tribunale dell’UE (il Tribunale), con la quale era stato sancito l’obbligo della Commissione di restituire a Deutsche Telekom (DT), oltre alla parte della sanzione annullata dal Tribunale, anche i c.d. default interest (interessi di mora) applicabili a tale somma.

La vicenda ha avuto origine nel 2014 quando la Commissione aveva sanzionato DT per circa 31 milioni di Euro per abuso di posizione dominante nel mercato delle telecomunicazioni slovacco. A seguito del ricorso di DT, tale sanzione veniva poi ridotta dal Tribunale nel dicembre del 2018 a circa 18 milioni di Euro. DT richiedeva alla Commissione, oltre alla restituzione di quanto in eccesso versato sulla base dell’originario importo della sanzione, anche il pagamento degli interessi di mora calcolati a partire dal 2014 (data del versamento della sanzione originaria), fino al momento dell’avvenuta restituzione. A seguito del rifiuto della Commissione, DT proponeva ricorso al Tribunale che, con la sentenza del gennaio 2022, aveva quindi riconosciuto il diritto di DT a ricevere gli interessi di mora (per un maggiore approfondimento sulle sentenze del Tribunale del 2018 e del 2022 si rimanda alla presente Newsletter).

La Commissione, con l’appello in questione, sostiene che il Tribunale abbia errato nello stabilire che l’Articolo 266 TFUE – il cui primo comma prevede l’obbligo per le istituzioni europee di adottare tutte le misure necessarie all’esecuzione di una sentenza che ha annullato uno degli atti da esse emanati – imponga anche un obbligo incondizionato di pagamento degli interessi di mora dalla data del versamento della sanzione.

Nell’esaminare il ricorso, l’AG ritiene, inter alia, che il primo paragrafo dell’Articolo 266 TFUE, nell’imporre un siffatto obbligo sulle istituzioni europee di dare piena applicazione delle decisioni delle corti europee, non ha tuttavia l’obiettivo di penalizzarle. Secondo l’AG tale obbligo invero non consiste, quindi, in una misura che richieda ad un’istituzione di pagare interessi eccessivi o punitivi. Un eventuale risarcimento del danno subito, infatti, andrebbe individuato sulla base di quanto previsto secondo paragrafo dell’articolo 266 TFEU, che sancisce la responsabilità extracontrattuale dell’Unione Europea, la quale va puntualmente provata e dimostrata – come non avvenuto nel caso di specie.

In merito alla questione se gli interessi di mora vadano calcolati a partire dal pagamento iniziale della sanzione, l’AG considera che il significato in latino di “mora” rimanda al concetto di ritardo; nel caso specifico, interessi applicabili sul ritardo nel dare piena applicazione alle sentenze. Secondo l’AG simili interessi possono essere dovuti solamente in relazione al periodo esistente tra la pronuncia della sentenza – nel caso di specie, di annullamento parziale della sanzione – e la effettiva restituzione di quanto non dovuto, ossia da quando è sorto l’obbligo di restituzione da parte dell’istituzione europea.

L’AG ha poi compiuto un esame della giurisprudenza della Corte, ed in particolare dei più recenti casi “Corus”, “IPK International” e “Printeos” i quali hanno iniziato ad utilizzare indistintamente i concetti di “interessi di mora” e “interessi compensativi”; i primi, come detto, secondo l’AG unicamente collegabili ad un ritardo nella liquidazione di un debito, mentre i secondi sarebbero legati ad un danno risultante da un atto illecito. In tali precedenti, sembra esser stato affermato il principio – a detta dell’AG senza alcuna giustificazione – che gli “…interessi di mora sono designati per compensare ad un tasso standard per la perdita di godimento delle somme dovute…”.

L’AG, dunque, con le proprie conclusioni, sottolinea che – seppur anch’essi riconducibili al primo paragrafo dell’Articolo 266 TFUE – gli interessi di mora non corrispondono né agli interessi “restitutori” (che hanno come obiettivo la restitutio in integrum della somma originariamente pagata e pagabili in base al primo paragrafo dell’Articolo 266 TFUE), né tantomeno a quelli “compensativi” (pagabili in base al secondo paragrafo di tale articolo).

In sintesi, come regola generale, secondo l’AG, nel caso in cui una società paghi ingiustamente una somma di denaro ad una istituzione europea, la somma che quest’ultima è obbligata a restituire va calcolata (i) assicurandosi che la società riceva esattamente lo stesso valore in termini monetari della somma inizialmente pagata (restitutio in integrum) – ai sensi del primo paragrafo dell’Articolo 266 TFUE; (ii) compensando la società per il danno subito in conseguenza della indisponibilità della somma pagata – ai sensi del secondo paragrafo dell’Articolo 266 TFUE; (iii) risarcendo qualsiasi arricchimento senza causa di cui un’istituzione dell’UE possa aver beneficiato.

Una volta accertati i precedenti punti, tali somme dovranno essere rimborsate dall’istituzione senza indugio, per evitare qualsiasi ritardo nell’inadempimento dei suoi obblighi, e conseguentemente eventuali interessi di mora, pagabili anch’essi ai sensi del primo paragrafo dell’Articolo 266 TFUE ma esclusivamente in riferimento al periodo di ritardo nella restituzione della somma di denaro non dovuta.

Le conclusioni in commento risultano essere in contrasto con la recente giurisprudenza. Non resta che vedere se la CGUE confermerà l’interpretazione fornita dall’AG, con un notevole impatto in casi di restituzioni di importi elevati, come avvenuto nei celebri casi Intel e Qualcomm.

Fabio Bifarini

---------------

Intese e settore bancario – La Commissione europea ha inflitto a Rabobank un’ammenda di 26,6 milioni di Euro per aver partecipato a un cartello relativo alla negoziazione di alcune obbligazioni

Con il comunicato stampa del 22 novembre, la Commissione europea (la Commissione) ha annunciato di avere inflitto una sanzione a Rabobank per aver partecipato a un cartello con Deutsche Bank riguardante la negoziazione delle obbligazioni conosciute nel settore come “SSA bonds” (Sovereign, Supranational and Agency Debt). La sanzione per Rabobank ammonta a 26,6 milioni di Euro, mentre Deutsche Bank ha ottenuto l’immunità totale per aver rivelato alla Commissione l’intesa, avvalendosi del programma di clemenza.

Come descritto nella nostra precedente Newsletter, già nel 2022 la Commissione aveva inviato a Deutsche Bank e Rabobank una comunicazione delle risultanze istruttorie (statement of objections) in merito a un possibile cartello riguardante il periodo 2005-2016, durante il quale, secondo l’accertamento della Commissione, le due banche si sono scambiate informazioni commercialmente sensibili e coordinando le strategie di negoziazione e di fissazione dei prezzi su tali titoli obbligazionari, integrando con tali condotte una violazione dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). L’intesa si sarebbe sviluppata attraverso scambi di informazioni via e-mail, messaggi istantanei e l’utilizzo delle chat room online di Bloomberg. Tali informazioni avevano ad oggetto: i) i prezzi, i volumi, insieme alle strategie e alle posizioni di trading attuali e future; ii) l’identità delle controparti; e iii) i requisiti per l’acquisto o la vendita di obbligazioni.

In conclusione, come anticipato, Rabobank è stata sanzionata con 26,6 milioni di Euro, mentre Deutsche Bank ha beneficiato dell’immunità totale attraverso il programma di clemenza, in virtù della propria cooperazione con la Commissione (c.d. leniency applicant); la Commissione ha messo in evidenza, probabilmente al fine di rendere edotti i terzi dell’impatto della condotta sui clienti di Deutsche Bank, che in assenza di tale cooperazione la sanzione stimata per Deutsche Bank sarebbe stata di quasi 156 milioni di Euro. Occorre ricordare che questa non è stata la prima volta che Deutsche Bank ottiene la piena immunità per la propria condotta in base al programma di clemenza: aveva infatti già collaborato con la Commissione nel 2021, quando altri tre istituti di credito erano stati sanzionati per un totale di oltre 28 milioni di Euro.

La vicenda rappresenta una chiara indicazione del ritorno dei programmi di clemenza quale strumento per la scoperta di cartelli, oltre che un monito per le imprese che anche il coordinamento collusivo con un altro solo concorrente è suscettibile di essere oggetto di tali programmi. Il settore finanziario sembra prestarsi bene a questa tipologia di pratiche se è vero che nel dicembre 2013 la Commissione aveva concesso l’immunità totale ad alcune società e una riduzione delle rispettive sanzioni ad altre, nell’ambito di un cartello fra banche, per aver partecipato al programma alla decisione.

Anja Spaić

------------

Aiuti di Stato e settore aereo – Rigettato il ricorso di Ryanair contro la decisione della Commissione europea sulla restituzione dell’aiuto di Stato illegale all’Austria

Con la sentenza del 23 novembre 2023 (la Sentenza), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha respinto il ricorso presentato da Ryanair DAC (Ryanair) e Airport Marketing Services Ltd (AMS, congiuntamente con Ryanair le Ricorrenti) avverso la sentenza del Tribunale dell’Unione Europea (Tribunale), con la quale era stata respinta a sua volta la richiesta di annullamento della decisione (UE) 2018/628 (la Decisione) della Commissione Europea (la Commissione) che aveva dichiarato illegali e incompatibili con il mercato interno gli aiuti di Stato disposti dall’Austria a favore delle Ricorrenti.

La vicenda trae origine nel 2002, quando Kärntner Flughafen Betriebsgesellschaft mbH (KFBG), ossia l’ente pubblico proprietario e gestore dell’aeroporto di Klagenfurt, con l’intento di promuovere un maggior indotto di passeggeri, decise di indire una gara d’appalto per un collegamento di linea tra Londra e Klagenfurt. A fronte dell’aumento del volume di traffico, la compagnia aerea aggiudicataria avrebbe ricevuto degli incentivi finanziari funzionali sia ad instaurare il collegamento aereo predetto, sia a promuovere il suddetto attraverso una campagna di marketing. Aggiudicatari della gara furono Ryanair e AMS, controllata di Ryanair ed incaricata di attuare la campagna pubblicitaria promozionale di quello che sarebbe stato il nuovo collegamento aereo.

Nel 2007, sulla scorta di una denuncia proveniente da un concorrente di Ryanair, la Commissione decise di esaminare gli accordi intercorsi tra le Ricorrenti e KFBG. In tale circostanza, era emerso che KFBG – alla data dell’indizione della gara – non era in possesso di alcun piano industriale relativo all’impatto della suddetta gara sulla effettiva redditività dell’aeroporto. Ciò, secondo la ricostruzione della Commissione, rappresentava una chiara violazione del principio dell’operatore che opera in un’economia di mercato, visto che nessun soggetto privato avrebbe mai proceduto all’indizione di una gara e alla conseguente conclusione di alcun accordo senza prima averne analizzato nel dettaglio le conseguenze economiche. Tale valutazione risultava essere corroborata dall’ulteriore analisi svolta dalla Commissione secondo cui, alla luce dei dati disponibili da KFBG alla data dell’indizione del bando di gara, e quindi con una valutazione ex ante, la redditività attesa dell’aeroporto sarebbe stata negativa in esito all’aggiudicazione della gara. Dunque, nella sua Decisione, la Commissione ha ritenuto gli aiuti di Stato illegali, in quanto non erano stati preventivamente notificati alla Commissione ai sensi dell’art. 108, comma 3, TFEU, nonché incompatibili col mercato interno ex art. 107 TFEU in quanto non rientranti in nessuna delle eccezioni ivi previste, imponendo al Governo austriaco di procedere con il recupero di quanto accertato.

Le Ricorrenti hanno contestato tale ricostruzione, adducendo che il quantum dell’importo dell’aiuto da recuperare calcolato sulla base di dati ex ante, doveva essere corretto sulla base dei dati ex post rispetto allo svolgimento della gara. Tale doglianza è stata respinta dalla CGUE, la quale ha confermato la correttezza della ricostruzione adoperata dalla Commissione, ribadendo che ai fini della valutazione dell’operatore in economia di mercato, debbano essere presi in considerazione i soli dati disponibili al momento dell’assunzione della decisione, ovverosia quando fu aggiudicato l’appalto; e che dunque la stima – calcolata dalla Commissione – degli aiuti da recuperare basata sulla parte negativa del flusso di cassa incrementale atteso al momento dell’aggiudicazione, ossia la differenza tra i ricavi e costi attesi dell’aeroporto conseguenti alla gara d’appalto che risultava appunto di segno negativo, fosse corretta.

Il caso in commento risulta essere di particolare interesse poiché dimostra che la mera indizione di una gara d’appalto non permette di ritenere soddisfatto il test dell’operatore privato in una economia di mercato per escludere l’esistenza dei vantaggi conferiti da uno Stato. E’ infatti decisivo verificare come tale gara è stata preparata. Infatti, se un ente pubblico non considera l’impatto sulla redditività della propria attività economica connesso alle offerte presentate in risposta al proprio bando di gara, questi non dovrebbe procedere con l’aggiudicazione poiché, così come rammenta la CGUE, un operatore in economia di mercato non concluderebbe nessun accordo destinato a generare – a causa dell’assenza di un’analisi sulla redditività attesa – un calo dei profitti o un aumento delle perdite.

Giuseppe Schinella

---------------------

Intese e settore del food delivery – Il faro della Commissione europea punta verso possibili accordi di c.d. no-poach

Lo scorso 21 novembre 2023 la Commissione europea (Commissione) ha reso noto di aver condotto ispezioni a sorpresa presso le sedi di operatori che gestiscono piattaforme online per l’ordine e consegna di cibi e pietanze in due Stati membri. E ciò, nel contesto di un’indagine già avviata dalla Commissione per asserite condotte volte alla spartizione dei mercati nazionali tra gli operatori coinvolti.

La vicenda appare interessante sotto un duplice profilo. Da un lato, rileva il fatto che la Commissione, a poco più di un anno dal primo “round” di ispezioni a sorpresa (precedentemente condotte nel luglio 2022), ha deciso di compiere ulteriori accertamenti, rammentando alle imprese che – nel contesto di indagini istruttorie – resta sempre possibile per le autorità garanti della concorrenza (nel caso di specie, la Commissione), condurre ulteriori accertamenti, ivi inclusi dawn raids o richieste di informazioni, anche a mesi di distanza rispetto al primo impulso investigativo.

Dall’altro lato, i nuovi accertamenti sembrano connessi ad un’estensione oggettiva del perimetro di indagine, inizialmente limitato ad accordi o pratiche concordate relative all’allocazione dei mercati nazionali tra gli operatori coinvolti, adesso esteso anche a possibili condotte di c.d. no-poach (oltre che possibili scambi di informazioni commercialmente sensibili), ossia accordi volti a limitare la mobilità dei lavoratori o contenere il costo di personale qualificato. Per quanto consta a chi scrive, si tratta della prima volta che la Commissione rivolge formalmente la propria attenzione su tali condotte.

L’iniziativa non sembra tuttavia una mossa del tutto inaspettata. Negli ultimi anni, prima l’allora commissaria Margrethe Vestager, poi il direttore generale Olivier Guersent, avevano pubblicamente indicato l’interesse della Commissione a monitorare simili condotte, storicamente poco battute sul fronte dell’enforcement europeo, facendo in una certa misura presagire che avrebbero potuto seguire iniziative più concrete.

Del resto, sulla scia dell’esperienza sviluppata negli Stati Uniti rispetto a condotte che a vario titolo incidono sul mercato del lavoro (si veda sul punto il blog post del 20 marzo 2023), le medesime condotte sembrano attrarre sempre più frequentemente l’occhio vigile anche di diverse autorità nazionali sul fronte europeo. E ciò non solo in settori che richiedono personale altamente qualificato (ad esempio i mercati connessi a tecnologie di vario genere) ma anche, più generalmente, in settori in cui si fronteggia scarsità di risorse. Per menzionarne alcuni, la notizia più recente riguarda l’Autorité de la concurrence francese, che il 23 novembre ha annunciato di aver trasmesso a diverse società attive nel settore dei servizi IT e di consulenza tecnologica una lettera degli addebiti per asserite condotte di no poach. Prima di essa, si ricordano le iniziative condotte in vari Paesi, tra cui il Belgio (nel settore dei servizi di sicurezza), il Portogallo (nel settore calcistico), la Romania (nel settore automobilistico) ed il Regno Unito, ove la Competition & Markets Authority lo scorso marzo ha pubblicato specifiche linee guida a monito delle imprese rispetto a simili pratiche ed ha all’attivo un’indagine in corso nei confronti di imprese che operano nel settore dei diritti TV.

A suggello di un trend che sembra in continua espansione, con l’iniziativa in commento la Commissione ricorda alle imprese che anche condotte connesse al mercato del lavoro quali accordi di no poach, wage-fixing e clausole di non-compete potrebbero rilevare anche sotto il profilo concorrenziale, da cui la necessità di tener conto – nelle proprie iniziative di compliance – anche di tali recenti sviluppi.

Cecilia Carli

-------------

Tutela del consumatore e contratti di mutuo – La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si pronuncia sul carattere vessatorio di alcune clausole sul pagamento di scadenze periodiche inserite nei contratti di mutuo

Con la sentenza del 23 novembre scorso (la Sentenza), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha risposto a un rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale circondariale della città di Varsavia (Tribunale del rinvio) in merito all’interpretazione della Direttiva 93/13/CEE (la Direttiva) concernente le clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori.

Il rinvio era stato effettuato nel corso di una disputa avente ad oggetto la validità di alcune clausole contenute in tre contratti di credito al consumo stipulati da altrettanti privati con un istituto di credito, la società polacca Provident Polska (l’Istituto di credito). In particolare, i ricorrenti lamentavano presso il Tribunale la vessatorietà delle clausole che prevedevano il pagamento di spese e commissioni, ulteriori e diverse rispetto agli interessi, di importo sproporzionato rispetto al servizio fornito. L’Istituto di credito aveva infatti addebitato ai mutuatari costi di gestione, rubricati come commissioni di esborso e spese di pratica e del piano di rimborso, pari quasi al valore del prestito fornito, ed eccedenti fino a cinque volte gli interessi previsti. In merito a tali questioni, il Tribunale del rinvio ha sottoposto alla CGUE tre domande pregiudiziali.

Con la prima domanda il Tribunale del rinvio chiedeva se l’art. 3 della Direttiva, che identifica come vessatorie le clausole che determinano un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi tra le parti – ma che altresì dispone che l’adeguatezza del corrispettivo non rientra in siffatta valutazione –, permettesse di considerare vessatoria una clausola relativa a costi extra e/o interessi sulla base del loro importo manifestamente sproporzionato rispetto al prestito fornito in cambio. La CGUE ha risposto affermativamente, chiarendo che qualora una valutazione economica di natura quantitativa riveli un significativo squilibrio, quest’ultimo può essere la base dell’accertamento della vessatorietà della clausola senza che sia necessario esaminare altri elementi.

Con la seconda domanda il Tribunale del rinvio si interrogava se la Direttiva, letta alla luce del principio di effettività, potesse determinare un contrasto con la normativa polacca, la quale subordinava l’azione giudiziale del consumatore alla prova di un interesse ad agire, definendolo carente in presenza di ricorsi alternativi più protettivi dei suoi diritti, quali l’azione di ripetizione dell’indebito o la risposta a un’eventuale azione di esecuzione da parte dell’Istituto di credito. La CGUE ha risposto negativamente alla domanda, osservando che ciò avrebbe reso eccessivamente difficile per il consumatore l’esercizio dei diritti conferitigli dalla Direttiva, in violazione del principio di effettività.

Infine, il Tribunale del rinvio chiedeva alla CGUE se la Direttiva, letta alla luce dei principi di effettività, proporzionalità e certezza del diritto, impedisse l’annullamento dell’intero contratto di credito qualora fosse abusiva solo la clausola sulle modalità di pagamento delle rate del mutuo. Nel caso di specie, infatti, tutti i contratti contenevano una clausola che prevedeva (curiosamente) che i pagamenti venissero effettuati settimanalmente, in contanti e tramite un agente dell’Istituto di credito, durante le visite di quest’ultimo al domicilio dei mutuatari. Il Tribunale del rinvio si interrogava se, valutando tale clausola come abusiva per pressione illegittima sui mutuatari, si potesse considerare nullo tutto il contratto. La CGUE ha concluso sul punto che l’annullamento integrale del contratto è permesso, ma non nel caso in cui la clausola abusiva sulle modalità di pagamento costituisca una pattuizione separabile dal resto del contratto. A quest’ultima ipotesi si riconduceva il caso di specie, dal momento che la soppressione della clausola avrebbe consentito il ripristino dell’equilibrio contrattuale, permettendo alle parti di scegliere una qualsiasi modalità di pagamento prevista dal diritto nazionale.

Affermati tali principi di diritto, la CGUE ha quindi rimesso la questione al Tribunale per il successivo giudizio nel merito.

Sindri Federico Garces Lambert