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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza - Europa / Intese e settore della produzione di autocarri – La Corte di Giustizia si pronuncia sull’applicazione temporale della Direttiva 2014/104/UE in relazione alla prescrizione delle azioni di risarcimento per danni derivanti da violazioni antitrust

Lo scorso 22 giugno, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (la CGUE) si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale sollevato dall’Audiencia Provincial de León (l’Audiencia) inerente alla Direttiva 2014/104/UE (la Direttiva) che persegue l’obiettivo di rendere più agevole l’esercizio delle azioni per il risarcimento dei danni derivanti da violazioni della disciplina antitrust.

Il rinvio si inserisce nella controversia che vede opposti, da un lato, Volvo AB e DAF Trucks NV (le Società), e, dall’altro, una impresa di trasporti su gomma che ha convenuto le prime dinanzi ai tribunali spagnoli per ottenere il risarcimento del danno derivante dal sovrapprezzo per l’acquisto di autocarri asseritamente causato dalle condotte poste in essere dalle Società, sanzionate come illegittime sul piano antitrust dalla Decisione AT.39824 (la Decisione) della Commissione Europea (la Commissione).

L’Audiencia ha sottoposto alla CGUE tre quesiti, chiedendole di pronunciarsi (i) sulla natura, processuale o sostanziale, degli articoli 10 e 17 della Direttiva; (ii) sull’ambito temporale di applicazione della disciplina dettata dalla Direttiva, con particolare riguardo all’applicabilità della semplificazione probatoria in materia di quantificazione del danno, di cui all’art. 17 comma 1, e della presunzione di danno contenuta nell’art. 17 comma 2 della Direttiva, nonché, (iii) sul dies a quo per la decorrenza dei termini di prescrizione fissati dalla stessa (e dalle disposizioni nazionali di recepimento) per l’esperimento delle azioni follow-on.

In Spagna la Direttiva è stata recepita il 27 maggio 2017, cinque mesi dopo lo spirare del termine ultimo per il compimento di tale operazione, fissato dalla Direttiva stessa nel 27 dicembre 2016; ai sensi del diritto spagnolo il termine generale di prescrizione per il risarcimento danni da responsabilità aquiliana è di un anno (art. 1968 del Codice Civile – pur essendo stata prevista, in sede di recepimento della Direttiva, un’ipotesi speciale di termine prescrizionale pari a 5 anni per la proposizione di azioni per il risarcimento danni derivanti da violazione della disciplina antitrust).

Dal momento che l’azione per il risarcimento danni era stata proposta dall’attore il 1° aprile 2018, secondo le Società essa doveva ritenersi prescritta, in quanto (i) la data corretta per la determinazione del regime applicabile (annuale o quinquennale) doveva ritenersi coincidere con quella ultima in cui l’infrazione era ancora in esistenza secondo l’accertamento della Commissione (ossia, il 18 gennaio 2011), e (ii) il dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale doveva individuarsi nella data di pubblicazione del comunicato stampa con il quale la Commissione aveva dato conto dell’avvenuto accertamento dell’infrazione (il 19 luglio 2016).

Secondo la CGUE, invece, dopo aver sottolineato come la prescrizione sia un istituto di diritto sostanziale (nella misura in cui estingue il diritto all’azione e, pertanto, incide direttamente nella sfera giuridica del singolo), in linea di principio il dies a quo dal quale essa decorre coincide con la data di pubblicazione del riassunto della Decisione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (nel caso di specie, il 6 aprile 2017), e non dal comunicato stampa, in quanto tipicamente è solo con tale riassunto che la parte danneggiata dalla condotta anticoncorrenziale ha effettiva cognizione degli elementi necessari al fine dell’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno, vale a dire i) l’esistenza di una violazione del diritto della concorrenza, ii) l’esistenza del danno, iii) il nesso di causalità tra tale danno e tale violazione e iv) l’identità dell’autore della violazione. Così ragionando, la CGUE ha constatato che l’azione, proposta il 1° aprile 2018, non risultava prescritta neanche ritenendo applicabile il termine prescrizionale generale del diritto spagnolo, pari, come detto, a un anno.

In secondo luogo, la CGUE ha qualificato come norma di carattere procedurale (e dunque, ai sensi dell’art. 22 della Direttiva, applicabile alle azioni per il risarcimento del danno esperite dal 26 dicembre 2014 in poi) l’articolo 17, comma 1, della Direttiva, il quale impone agli Stati Membri di non definire regole che, o per l’allocazione dell’onere della prova o per lo standard probatorio richiesto, rendano “praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto al risarcimento”, eventualmente conferendo ai giudici il potere di procedere direttamente alla stima del danno sofferto dall’attore in virtù di una comprovata condotta anticompetitiva, laddove la quantificazione precisa da parte dell’attore si dimostri impossibile o eccessivamente difficile. Ciò, in quanto secondo la CGUE tale norma riguarda esclusivamente l’onere della prova e il grado di intensità della prova richiesto, e non introduce nuovi obblighi sostanziali a carico di una delle parti delle controversie in materia di risarcimento del danno derivante da violazione della disciplina antitrust.

Infine, la CGUE ha qualificato come disposizione di natura sostanziale l’articolo 17, comma 2 della medesima Direttiva, che fissa la presunzione (iuris tantum) di danno derivante dall’accertamento di un cartello, in quanto tale disposizione è “…direttamente connessa al sorgere della responsabilità civile extracontrattuale dell’autore della violazione […] e, di conseguenza, incide direttamente sulla situazione giuridica di quest’ultimo…”. La disposizione, dunque, secondo la CGUE non è applicabile al caso concreto perché il fatto identificato dalla Direttiva come idoneo a far presumere l’esistenza di un danno (ossia, la data di cessazione del cartello, il 18 gennaio 2011) precede la data di scadenza del termine di recepimento della Direttiva, e dunque non ne risulta assoggettato.

La pronuncia è rilevante in quanto getta luce su diversi punti chiave per l’esperimento delle azioni follow-on per il risarcimento dei danni derivanti da violazioni della disciplina antitrust; non resta che vedere come si evolverà il quadro nel prossimo futuro e se, anche alla luce di tali chiarimenti, si avrà un maggiore utilizzo di tale strumento.

Ignazio Pinzuti Ansolini

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Dawn raids e tutela della privacy – La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sui limiti dei dawn raids alla luce delle garanzie previste dalla CEDU

Il 23 giugno scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo (la Corte EDU) si è pronunciata su un ricorso volto a far dichiarare illegittime e sproporzionate le attività di perquisizione e i sequestri effettuati dal Consiglio della concorrenza lettone (CC) nei locali commerciali di SIA RIX Shipping (la Società), società lettone attiva nel settore dei servizi di trasporto marittimo.

Nel 2013 la CC aveva aperto un’indagine nei confronti dell’associazione “NALSA” (National Association of Latvian Shipbrokers and Shipping Agents) e nel 2014 aveva sanzionato quest’ultima per un’intesa in essere tra i suoi membri avente ad oggetto la fissazione dei prezzi dei servizi di trasporto. In particolare, dalle indagini effettuate dell’autorità era emersa una tabella riguardante prezzi raccomandati presente nello statuto dell’associazione che avrebbe incentivato l’imposizione di prezzi minimi per le tariffe applicate dai membri dell’associazione. Nel corso dell’istruttoria il CC nel 2014 aveva ottenuto un’autorizzazione giudiziale per effettuare dei dawn raids presso le società sospettate di far parte di tale intesa, tra cui SIA RIX Shipping. Durante le ispezioni presso quest’ultima, il CC aveva esaminato e sequestrato numerosi documenti riconducibili alla sua attività commerciale, tra cui anche la corrispondenza, file e documenti appartenenti all’amministratore della Società la cui natura di documento privato o commerciale era alquanto controversa.

Dopo aver esaurito le vie di ricorso interne, la Società ha presentato ricorso presso la Corte EDU lamentando l’illegalità e la sproporzionalità dell’ispezione effettuata presso i locali commerciali e la mancanza delle garanzie procedurali previste dal diritto lettone che accompagnano lo svolgimento di tali attività che, se confermate, violerebbero l’articolo 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo che sancisce il diritto al «rispetto della propria vita privata e familiare».

Dopo aver superato i requisiti di ammissibilità, i giudici hanno esaminato il ricorso nel merito, soffermandosi in particolare sull’analisi del provvedimento di autorizzazione giudiziale dell’ispezione e sulle garanzie offerte dal diritto lettone al riguardo.

Sul punto, la Corte EDU ha confermato che il provvedimento che ha autorizzato il dawn raids ha compresso la sfera privata della Società dato, in primo luogo, il numero significativo di documenti sequestrati e data anche la formulazione generica utilizzata dal giudice che ha permesso al CC (i) di perquisire, sequestrare e copiare dati presenti nei sistemi elettronici anche quelli avente natura commerciale sensibile e appartenenti ai “dipendenti, funzionari e altri”, di (ii) restringere la libertà di movimento e di comunicazione a chiunque fosse presente sul posto e di (iii) sigillare i locali fino a settantadue ore. Tuttavia, tale provvedimento è stato ritenuto legittimo in virtù della sua conformità alla legge allora vigente che non comportava per il giudice un elevato grado di specificità nella delimitazione dell’oggetto, scopo e destinatari dell’ispezione. Inoltre, sempre secondo i giudici, la giustificazione di tale attività risiederebbe anche nel controbilanciamento, in questo caso dato dalla presenza di apposite garanzie procedurali sancite dal diritto lettone (ma alquanto comuni quando si svolgono ispezioni) quali: (i) la presenza di un avvocato; (ii) l’obbligo di rendicontare quanto avviene durante l’ispezione e (iii) l’autorizzazione preventiva da parte di un tribunale ad un’ispezione e la successiva possibilità di impugnare il provvedimento dinanzi ad un giudice terzo.

Sulla base di queste valutazioni, la Corte EDU ha respinto il ricorso e ha confermato la proporzionalità e la legittimità della procedura eseguita dal CC e dai suoi funzionari nel corso del dawn raids presso la Società grazie alle garanzie procedurali previste dal diritto lettone, che sarebbero state sufficienti per controbilanciare l’ampia discrezionalità conferita ai funzionari del CC.

Sicuramente il tema delle ispezioni è mai come d’ora attuale data anche la piena ripresa delle attività investigative delle autorità della concorrenza post-pandemia. Sarà interessante vedere come queste ultime saranno in grado di conciliare la loro attività di indagine con le tutele previste a garanzia della sfera privata dei soggetti.

Maria Spanò

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Concentrazioni e settore della produzione di acciaio – Il Tribunale dell’UE ha respinto il ricorso presentato da Thyssenkrupp avverso il veto della Commissione Europea sulla prospettata joint venture con Tata Steel

Con la sentenza pubblicata lo scorso 22 giugno, il Tribunale dell’UE (Tribunale) ha respinto integralmente il ricorso presentato da Thyssenkrupp AG (Thyssenkrupp) avverso la Decisione con cui la Commissione Europea (Commissione) ha dichiarato incompatibile con il mercato interno la creazione di una joint venture full-function (JV) partecipata con quote e diritti paritari dalla ricorrente e da Tata Steel Limited (Tata).

Nonostante gli importanti rimedi strutturali proposti dalle parti, la Commissione aveva infatti ritenuto che la prospettata unione tra il secondo e il terzo produttore al mondo di prodotti piatti in acciaio al carbonio fosse idonea a provocare effetti orizzontali non coordinati a seguito dell’eliminazione di un importante elemento di pressione competitiva nei mercati della produzione e fornitura di acciaio zincato a caldo destinato all’impiego nel settore automotive, nonché nei mercati della produzione di latta, acciaio laminato ed elettrolitico cromato per il settore del packaging nello Spazio Economico Europeo (SEE).

I motivi di censura presentati dalla ricorrente sono molteplici e consistono principalmente in presunti errori procedurali, di diritto e di valutazione in merito alla identificazione dei mercati rilevanti, sia del prodotto sia geografici, ai rimedi proposti dalle parti e alle procedure di richiesta di informazioni tramite questionari presentati agli altri operatori del mercato.

Nel corso delle sue argomentazioni, il Tribunale ha ribadito in più occasioni che il c.d. SNIPP test (ossia, un test per definire l’ambito dei mercati sulla base della reazione della domanda ad un ipotetico piccolo, ma significativo, aumento dei prezzi) costituisce solo uno dei possibili metodi di valutazione della sostituibilità sul lato della domanda e che pertanto non sussiste alcun obbligo in capo agli organi giurisdizionali dell’Unione di adottare sempre tale standard. Sul fronte dell’accertamento della sostituibilità dal lato dell’offerta, invece, il Tribunale ha sottolineato come la possibilità tecnica di convertire la produzione verso un altro prodotto costituisca condizione necessaria ma non sufficiente, assumendo invece rilevanza, in caso di assenza di prove contrarie, il comportamento realmente tenuto dagli operatori del settore. Ulteriore aspetto rilevante è quello dell’ampio margine di autonomia riconosciuto dal Tribunale alla Commissione nel condurre le proprie valutazioni alla luce dei propri precedenti relativi ad uno specifico settore; il Tribunale ha infatti ribadito come, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la Commissione non sia in alcun modo tenuta a conformarsi ai processi valutativi riscontrabili in tali precedenti.

Thyssenkrupp ha quindi sostenuto che la Commissione non avrebbe valutato i rimedi proposti secondo l’affermato standard della loro idoneità a non sollevare criticità concorrenziali, bensì secondo il più rigido approccio della loro idoneità ad eliminare tutte le possibili sovrapposizioni orizzontali, risultando così in un’applicazione discriminatoria dello standard che, se confermata, svuoterebbe a priori di significato qualsiasi rimedio di natura non strutturale. Il Tribunale ha respinto anche questa censura ritenendo l’operato della Commissione conforme allo standard tradizionale in quanto tale critica troverebbe fondamento solo in uno dei molteplici quesiti sottoposti agli operatori del settore, i quali erano invece legittimamente mirati ad ottenere elementi per una valutazione complessiva dell’idoneità dei rimedi ad eliminare le criticità anticoncorrenziali. Su tale punto, il Tribunale ha ritenuto inoltre irrilevante il riferimento della ricorrente al tenore sia delle formulazioni espresse nel relativo press release della Commissione sia delle dichiarazioni rese dai funzionari della stessa in sede di negoziazione dei rimedi.

Infine, Thyssenkrupp ha lamentato, da un lato, il mancato ricorso a meccanismi di enforcement per ottenere una risposta da tutti gli intervistati, dall’altro che un tasso di risposta al questionario prossimo al 50% non sia idoneo a rappresentare la posizione della maggioranza degli operatori intervistati. Premesso che il Regolamento UE sulle Concentrazioni prevede la possibilità, e non l’obbligo, di imporre sanzioni a chi non risponde ai predetti questionari, il Tribunale ha ritenuto che nel caso di specie la Commissione non avrebbe potuto fare nulla di più che inviare puntuali reminder agli intervistati in quanto qualsiasi azione aggiuntiva, essendo una eventuale applicazione forzata tramite sanzioni passibile di revisione da parte della Corte di Giustizia dell’UE (CGUE) e quindi idonea a dilatare i tempi del procedimento, si sarebbe posta in contrasto con le esigenze di celerità sottese all’intero impianto del Regolamento stesso.

Con tale sentenza il Tribunale ha quindi respinto l’articolato appello di Thyssenkrupp, confermando l’ampia discrezionalità in capo alla Commissione sulla impostazione da adottare in sede di controllo sulle concentrazioni; questo (decimo) veto posto dalla Commissione negli ultimi dieci anni, tuttavia, potrebbe essere ancora oggetto di un ulteriore ricorso, benché limitato alle questioni di diritto, di fronte alla CGUE.

Niccolò Antoniazzi

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Autorità francese e abusi nel settore tech – L’Autorità antitrust francese chiude mediante l’adozione di impegni un procedimento contro Google per un ipotetico abuso consistente nel rifiuto di negoziare e compensare gli editori

Con la decisione dello scorso 21 giugno, l’Autoritè de la concurrence francese (l’Autorità) ha chiuso con impegni un procedimento per abuso di posizione dominante nei confronti di Google. La contestazione dell’Autorità verteva attorno alle modalità con cui Google aveva condotto le negoziazioni con gli editori di testate giornalistiche (“editori”) volte a stabilire l’importo della compensazione che le piattaforme online devono ex lege erogare nei confronti degli editori di cui sfruttano i servizi.

La vicenda origina dalla disciplina introdotta dalla Direttiva Copyright del 2017, voluta dal legislatore europeo al fine di garantire tutela ai creatori di contenuti e opere anche in caso di circolazione online dei propri prodotti. In tale quadro, gli artt. 15 e 16 della Direttiva introducono una disciplina di favore a sostegno della stampa, in quanto (i) prevedono la possibilità per gli editori di concedere o rifiutare la pubblicazione dei propri prodotti tramite piattaforme terze; e (ii) in sede di attuazione, rimettono agli Stati membri la facoltà di prevedere il diritto dell’editore che abbia fornito licenza per la pubblicazione dei propri articoli a una quota del compenso previsto per gli utilizzi dell’opera. A seguito del recepimento nell’ordinamento francese di tale direttiva, diversi editori hanno tentato di intavolare una trattativa con Google per determinare la quota che quest’ultima avrebbe dovuto versare agli stessi in virtù dell’utilizzo, inter alia, di fotografie di stampa tra le fonti di Google Images nonché degli articoli di stampa tra i risultati di Google Search e Google News.

Nel corso del 2019, a fronte dell’asserito rifiuto e delle condotte apparentemente ostruzionistiche tenute da Google davanti alle pretese degli editori, diverse associazioni di categoria rappresentative della carta stampata hanno presentato denuncia all’Autorità. Quest’ultima ha dunque avviato un procedimento, ipotizzando che la condotta di Google – consistente nel rifiuto di negoziare la determinazione della quota dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei contenuti di stampa prodotti da terzi da versare agli editori – fosse idonea a integrare una violazione dell’art. 102 lett. (a) e (c) TFUE. A ciò ha fatto seguito, nell’aprile 2020, l’adozione di misure cautelari, volte complessivamente a garantire una conduzione delle negoziazioni da parte di Google secondo buona fede. Quest’ultima avrebbe tuttavia disatteso ai propri obblighi (i) incentrando le discussioni con gli editori su un nuovo servizio, Google News Showcase, senza fornire aperture sulle altre richieste; (ii) escludendo dal novero dei legittimi interlocutori le agenzie di stampa e altre categorie di editori; (iii) interpretando la nozione di “profitti” in termini restrittivi, limitata solo ai ricavi pubblicitari generati sul proprio motore di ricerca dal volume di traffico direttamente imputabile al singolo articolo o editore, e omettendo di calcolare il valore aggiunto che la presenza dell’editore apporta ai servizi offerti da Google all’utenza. Nel luglio 2021, preso atto dell’inottemperanza da parte di Google, l’Autorità ha comminato alla società americana una sanzione di 500 milioni di euro.

Con la decisione in commento, l’Autorità ha chiuso il procedimento nei confronti di Google, accogliendo gli impegni proposti da quest’ultima. Scopo degli impegni è, in via principale, rinforzare quanto già previsto dalle misure cautelari e garantire che la negoziazione della quota da attribuire agli editori possa essere realmente oggetto di trattativa secondo buona fede. In questo senso, Google si impegna in primo luogo a estendere le proprie trattative anche alle agenzie di stampa nonché agli altri editori originariamente esclusi. In secondo luogo, Google si obbliga a mantenere separate da un lato le trattative per l’inserimento degli articoli degli editori in Google News Showcase e, dall’altro, le negoziazioni per l’individuazione della quota prevista dalla Direttiva Copyright. Qualora quest’ultime non giungano a termine entro tre mesi, la determinazione dell’importo potrà essere deferita a un arbitro, il cui onorario sarà addossato in ogni caso a Google. Si prevede inoltre l’obbligo in capo alla società americana di fornire alle controparti una serie di dati sensibili strumentali al calcolo della quota, quale ad esempio il profitto imputabile al traffico generato dal singolo editore. Inoltre, Google ha rinunciato al proprio diritto di appello nei confronti della sanzione per inottemperanza precedentemente comminata dall’Autorità.

Con la decisione in commento, l’Autorità francese conferma di essere una delle autorità nazionali più attive a livello europeo nell’enforcement della disciplina antitrust nei confronti delle big tech. Sul tema si ricorda la sanzione di 220 milioni adottata nel 2021 sempre nei confronti di Google per una condotta abusiva nel settore dell’intermediazione della pubblicità online, nonché il procedimento pendente per un abuso nello stesso mercato nei confronti di Meta.

Alessandro Canosa

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Appalti, concessioni e regolazione / Legge-delega sui contratti pubblici: in vista un nuovo Codice dei contratti pubblici?

Lo scorso 14 giugno 2022, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge-delega per la revisione della disciplina dei contratti pubblici (Legge-delega). Nello specifico, il Governo è stato delegato ad adottare, nell’arco dei sei mesi successivi all’entrata in vigore della Legge-delega, uno o più decreti legislativi che probabilmente daranno luogo ad un nuovo Codice dei contratti pubblici dopo poco più di sei anni dall’approvazione dell’attualmente vigente d.lgs. n. 50/2016.

La Legge-delega si compone di due articoli e si limita a prevedere dei principi a cui dovrà conformarsi il Governo in sede di stesura dei decreti legislativi attuativi.

I punti salienti dell’intervento normativo in commento sono inter alia:

(i) la previsione di semplificazioni per le procedure c.d. sotto-soglia, ossia le procedure che hanno ad oggetto contratti di minore valore (i.e. al di sotto delle soglie che sono fissate a livello euro-unitario);

(ii) il divieto di gold plating rispetto alle direttive europee in materia di contratti pubblici, che si esprime nella prescrizione di introdurre o mantenere “livelli di regolazione corrispondenti a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse”, ferma restando l’osservanza di regole inderogabili come quelle sul rispetto dei diritti dei lavoratori;

(iii) la previsione del rafforzamento delle funzioni di vigilanza sul settore da parte di ANAC;

(iv) l’indicazione di rendere le “regole di partecipazione chiare e certe” mediante una ‘tassativizzazione’ delle cause di esclusione;

(v) la ridefinizione del regime di normativa secondaria mediante il prospettato utilizzo di fonti regolamentari in luogo della c.d. soft law;

(vi) la previsione dell’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nelle lex specialis di gara clausole di revisione automatica dei prezzi al ricorrere di particolari condizioni di natura oggettiva e non prevedibili ex ante;

(vii) la prospettata facoltà per le stazioni appaltanti di riservare il diritto di partecipazione – in potenziale deroga al principio di libera concorrenza – a determinati soggetti che assicurano l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate.

In attesa della imminente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e dei decreti attuativi che seguiranno, si osserva che l’auspicio del legislatore è di razionalizzare e ordinare una normativa tormentata. In effetti, nonostante l’ultimo tentativo di codificazione risalga a meno di un decennio fa, numerosi sono stati gli interventi correttivi e le novelle, specie negli ultimi anni in correlazione all’emergenza da COVID-19. Al contempo, il legislatore osserva l’esigenza di rimediare ai profili di potenziale contrasto della disciplina nazionale con le direttive europee e indica il “fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione da parte della Commissione europea” tra le ragioni principali del prospettato (e, si auspica, definitivo) intervento riformatore in materia di contratti pubblici.

Alessandro Paccione

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