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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Abuso di posizione dominante e settore del gas – Il Tribunale dell’UE si pronuncia sulla decisione del 2018 della Commissione che ha reso vincolanti gli impegni presentati da Gazprom e sul rigetto di una segnalazione per condotte analoghe

Con le due pronunce in commento, il Tribunale dell’UE (il Tribunale) ha rigettato il ricorso proposto da Polskie Górnictwo Naftowe i Gazownictwo S.A. (PGNiG), un grossista polacco nel settore della distribuzione di energia, avverso la decisione della Commissione Europea (Commissione) di concludere un procedimento per presunte condotte abusive poste in essere da PJSC Gazprom e dalla sua controllata Gazprom export LLC (congiuntamente, Gazprom) mediante l’adozione di impegni ex art. 9 Reg. 1/2003 (senza accertamento di un illecito). Allo stesso tempo, il Tribunale ha annullato la decisione della Commissione di rigetto della parallela segnalazione presentata dal medesimo operatore polacco nei confronti di Gazprom per condotte parzialmente analoghe a quelle già oggetto di indagine.

La vicenda oggetto delle due pronunce origina da due istruttorie condotte tra il 2011 e il 2015 dalla Commissione nei confronti di Gazprom. Gazprom è la società energetica controllata dal Governo russo che detiene le più vaste riserve mondiali di gas naturale. Le quote di mercato di Gazprom per la distribuzione all’ingrosso di gas naturale negli otto paesi dell’Est Europa che hanno costituito oggetto di indagine oscillavano tra l’80 e il 100%. Nel 2015, la Commissione aveva contestato a Gazprom l’attuazione di una complessa strategia abusiva articolata in tre filoni principali: in primo luogo, Gazprom avrebbe frammentato e isolato i mercati nazionali del gas dei paesi europei coinvolti nell’investigazione. Le restrizioni territoriali contestate avrebbero assunto le forme, inter alia, di vincoli contrattuali alla rivendita del gas, divieti di esportazione e clausole di destinazione. In secondo luogo, nei mercati in esame Gazprom avrebbe praticato prezzi eccessivi. Infine, Gazprom avrebbe tentato di far leva sulla propria posizione dominante per acquisire una influenza strategica sullo sviluppo delle infrastrutture energetiche in Bulgaria e Polonia. Su quest’ultimo profilo si era concentrata in particolare la denuncia presentata nel 2017 da PGNiG nei confronti di Gazprom: Gazprom avrebbe condizionato l’erogazione delle forniture di gas all’acquisizione di un ruolo strategico nelle decisioni di investimento sul gasdotto polacco Yamal.

Nel 2018, la Commissione aveva concluso il procedimento nei confronti di Gazprom accogliendo gli impegni presentati da quest’ultima volti a rimuovere le clausole contrattuali contestate, inserire nei contratti vigenti procedimenti di revisione dei prezzi al fine di allinearli a quelli praticati in Europa occidentale e deferire a un arbitro eventuali controversie sorte sul tema. Circa le condotte relative all’asserita influenza sullo sviluppo delle infrastrutture energetiche in certi Stati Membri, al termine dell’istruttoria la Commissione aveva invece ritenuto infondate le contestazioni inizialmente mosse a Gazprom e non ha dunque richiesto impegni specifici sul tema. Nel 2019, la Commissione aveva inoltre chiuso il procedimento sorto dalla denuncia parallela presentata da PGNiG, ritenendo in parte risolte e in parte infondate le contestazioni di PGNiG nei confronti di Gazprom. Circa il gasdotto Yamal, la Commissione aveva fondato le proprie conclusioni su un provvedimento dell’Autorità energetica polacca emesso a seguito delle contestazioni mosse nel 2015, il quale certificava la sussistenza del potere di deliberare gli investimenti strategici in capo a una società polacca, escludendo qualsiasi coinvolgimento determinante di Gazprom.

Con le sentenze in commento, il Tribunale si è ora pronunciato sui ricorsi presentati da PGNiG avverso entrambi i provvedimenti. Con la sentenza T 616/18, il Tribunale ha respinto il ricorso presentato da PGNiG contro la decisione della Commissione di concludere con impegni il procedimento nei confronti di Gazprom. In particolare, il Tribunale ha ritenuto infondate le censure mosse da PGNiG relative all’assenza di impegni con riferimento alle condotte di leveraging sul gasdotto Yamal: il Tribunale ha osservato che l’obbligo di proporzionalità degli impegni adottati ex art. 9 Reg. 1/2003 non impone che tali impegni debbano coprire tutte le contestazioni inizialmente mosse dalla Commissione purché quest’ultima abbia adeguatamente motivato le proprie scelte – e nel caso in esame tale onere è stato soddisfatto. Con la sentenza T 399/19, il Tribunale ha invece annullato il rigetto da parte della Commissione della denuncia presentata da PGNiG. Due i vizi riscontrati dal Tribunale: sul piano procedurale, la Commissione avrebbe omesso di menzionare nel corso del contraddittorio con PGNiG uno dei motivi su cui ha successivamente fondato la propria decisione di chiusura del procedimento; nel merito, le valutazioni della Commissione circa la rilevanza della decisione dell’Autorità energetica polacca sarebbero state infondate, avendo la Commissione trascurato di considerare l’evoluzione fattuale successiva al provvedimento.

Le pronunce in esame si collocano sullo sfondo delle tensioni tra UE e Russia, di cui l’attuale crisi energetica costituisce il precipitato, nonché tra UE ed Europa Orientale – si pensi a questo proposito che la decisione della Commissione di chiudere il procedimento nei confronti di Gazprom senza comminare sanzioni, profondamente contestata dalla Polonia, è stata seguita pochi anni dopo dalla decisione dell’Autorità della concorrenza polacca di sanzionare la stessa Gazprom per 6.5 miliardi di euro per aver dato corso ad una joint venture al fine di costruire un nuovo gasdotto in Polonia nonostante il veto precedentemente posto all’operazione. Sarà dunque interessante vedere se la vicenda avrà un seguito anche davanti alla Corte di Giustizia.

Alessandro Canosa

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Intese e settore dei camion - Il Tribunale dell’UE respinge il ricorso di Scania e conferma l’ammenda inflitta dalla Commissione per la sua partecipazione all’intesa tra costruttori di autocarri

Con la sentenza del 2 febbraio 2022, il Tribunale dell’UE (il Tribunale) ha respinto il ricorso proposto da Scania AB, Scania CV AB e Scania Deutschland GmbH (collettivamente, Scania) diretto all’annullamento della decisione della Commissione che l’aveva condannata al pagamento di un’ammenda di circa 880 milioni di euro per aver partecipato ad un’intesa volta a limitare la concorrenza sul mercato degli autocarri medi e pesanti.

La vicenda ha inizio il 20 settembre 2010, quando una delle società partecipanti all’intesa presentava domanda di leniency dinanzi alla Commissione Europea (la Commissione). In seguito alla notifica della comunicazione degli addebiti, veniva aperto nei confronti di tutte le parti coinvolte nell’intesa il sub-procedimento volto ad addivenire ad una transazione di carattere pubblicistico (c.d. settlement) che consente alle stesse di riconoscere la propria responsabilità a fronte di una riduzione della sanzione. Tuttavia, mentre le altre parti raggiungevano un accordo con la Commissione ed i relativi procedimenti si sono chiusi nel 2016, Scania si ritirava da questo procedimento e, il 27 settembre 2017, la Commissione adottava nei suoi confronti una decisione di condanna (la Decisione).

Nel dicembre 2017 Scania presentava ricorso contro la Decisione lamentando inter alia: i) una violazione dei diritti di difesa nonché della presunzione di innocenza derivante, in particolare, dall’adozione della decisione di transazione prima dell’adozione della decisione impugnata (tramite un c.d. procedimento ibrido); nonché ii) l’erronea qualificazione da parte della Commissione in ordine all’esistenza di “un’infrazione unica e continuata”.

Secondo Scania, il riconoscimento della responsabilità a carico delle altre società – che avevano proseguito nel procedimento di transazione – avrebbe inquinato il giudizio obiettivo della Commissione, minando di fatto il suo approccio neutrale all’indagine. Il Tribunale, sul punto, ha osservato come la decisione non ha di fatto anticipato la responsabilità di Scania, mancando ogni riferimento o espressione a tal riguardo. Inoltre, sulla scia di una giurisprudenza ormai consolidata, viene confermata la piena legittimità del procedimento ibrido, a patto che vengano rispettati i principi alla base del giusto processo. Il Tribunale chiarisce, infatti, che la Commissione in questi casi è obbligata a riesaminare il fascicolo alla luce di tutte le circostanze pertinenti, prove, informazioni e argomenti presentate nell’ambito del procedimento amministrativo ordinario, preservando in questo modo il diritto di difesa dei soggetti coinvolti e la sua imparzialità di giudizio. La ricorrente, dunque, secondo il Tribunale, avrebbe avuto l’opportunità di produrre dinanzi alla Commissione tutti gli elementi di prova volti a chiarire la vicenda e/o contestare le accuse da questa mosse.

In secondo luogo, Scania ha contestato la qualificazione della vicenda come “infrazione unica e continuata” per l’assenza di un effettivo collegamento tra le diverse condotte contestate. Il Tribunale ha rigettato tale interpretazione e, seguendo una giurisprudenza costante, ha ricordato che una violazione della normativa a tutela della concorrenza può risultare non solo da un comportamento isolato, da una serie di atti o da un comportamento continuato ma anche da una serie di azioni comunque riconducibili a un “piano di insieme” volto alla realizzazione di un unico obiettivo anticoncorrenziale.

Resta da vedere se della controversia sarà investita in seconda istanza la Corte di Giustizia.

Maria Spanò

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Diritto della concorrenza Italia / Abuso di posizione dominante e settore dell’editoria – Il Consiglio di Stato conferma la sentenza del TAR Lazio che aveva riformato la decisione con cui l’AGCM aveva sanzionato S.I.E per rifiuto a contrarre

Con la sentenza n. 528/2022 pubblicata lo scorso 26 gennaio, il Consiglio di Stato (CdS), rigettando il ricorso presentato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ha confermato la sentenza del TAR Lazio che riformava la decisione con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva sanzionato la società S.I.E. - Società Iniziative Editoriali S.p.A. (SIE) per abuso di posizione dominante.

Nello specifico, la condotta contestata dall’AGCM è il rifiuto di SIE, editrice de “L’Adige”, ovvero del principale quotidiano per tiratura e diffusione nella Provincia Autonoma di Trento, di concedere la licenza sui propri contenuti alle rassegne stampa locali. Secondo l’AGCM, infatti, tale condotta sarebbe stata meritevole di sanzione in quanto ricorrevano le condizioni della c.d. “Essential Facility Doctrine” (EFD). Tali condizioni, richiamate nel dettaglio dal TAR e dal CdS con riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (IMS Health, C-418/01), richiedono cumulativamente che:

  1. il bene cui si chiede accesso sia indispensabile per l’esercizio di una data attività in un mercato derivato;
  2. il rifiuto impedisca l’ingresso di un nuovo prodotto o servizio che il titolare del diritto di proprietà intellettuale non offre e per cui esista una potenziale domanda da parte dei consumatori;
  3. il rifiuto non sia oggettivamente giustificato;
  4. il rifiuto sia idoneo ad eliminare qualsiasi concorrenza su un mercato derivato.

La sentenza di riforma del TAR (per una cui analisi più approfondita si rimanda alla nostra Newsletter del 20 gennaio 2020), accoglieva gli argomenti della società sanzionata circa una carenza istruttoria nel procedimento dell’AGCM riguardo, in particolare, i profili dell’essenzialità della risorsa in questione e della innovatività del prodotto offerto, annullando quindi la sanzione irrogata dall’AGCM.

Il CdS conferma l’impostazione del TAR. In particolare, rileva che alcune gare erano state vinte da operatori che non disponevano della risorsa in questione, a discapito di concorrenti che di tale risorsa invece disponevano, e che una nota di chiarimento di Trentino Sviluppo aveva confermato la discrezionalità della Commissione di gara nel valutare se e come tenere in considerazione l’impossibilità di fornire la rassegna stampa per tale testata. Ciò è in chiaro contrasto con la nozione di indispensabilità secondo la giurisprudenza del CdS stesso, per la quale si deve intendere una “assoluta indispensabilità e non duplicabilità della risorsa” (sent. n. 4228/2014).

Tramite questa sentenza, il CdS ha quindi ulteriormente chiarito le condizioni dell’EFD coerentemente con il suo orientamento consolidato, secondo cui per soddisfare il criterio dell’“indispensabilità”, e quindi obbligare una impresa a contrarre, non è sufficiente un “elevato gradimento” ovvero “grande utilità” della risorsa in questione.

Niccolò Antoniazzi

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Pratiche commerciali scorrette e settore delle telecomunicazioni – Il Consiglio di Stato respinge il ricorso di Vodafone contro la sanzione di 1 milione di euro irrogata dall’AGCM

Con la sentenza n. 732/2022 dello scorso 2 dicembre 2021, il Consiglio di Stato (CdS) ha respinto il ricorso proposto da Vodafone Italia S.p.A. (Vodafone) per la riforma della sentenza del TAR Lazio, la quale aveva confermato il provvedimento assunto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) a conclusione del procedimento PS10497, con il quale l’AGCM aveva irrogato alla società una sanzione complessiva di 1 milione di euro per due asserite violazioni del Codice del Consumo.

In particolare, l’AGCM aveva ritenuto che la decisione di Vodafone di ridurre agli utenti il periodo di fatturazione da 30 a 28 giorni sia per il servizio di telefonia mobile, sia per il servizio di telefonia fissa, era risultata in due pratiche commerciali aggressive in quanto l’obbligo imposto da Vodafone di pagare in unica soluzione le rate residue relative all’acquisto di prodotti (per le offerte di telefonia mobile) o il contributo di attivazione (per le offerte di telefonia fissa) per tutti i clienti che avessero esercitato il diritto di recesso costituiva un indebito condizionamento idoneo a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore rispetto all’esercizio del diritto di recesso, facendogli assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti assunto.

Vodafone si era difesa affermando da un lato di poter modificare unilateralmente le condizioni contrattuali (salva esenzione da penali e da costi di disattivazione) secondo quanto prevede il Codice delle comunicazioni elettroniche; dall’altro, che l’obbligo di pagare le rate residue o il contributo di attivazione era oggetto di una previsione contrattuale espressamente accettata dai consumatori in questione, non potendo dunque costituire una condotta commerciale aggressiva.

La sentenza del TAR, in conformità al provvedimento dell’AGCM e respingendo il ricorso presentato da Vodafone, ha ritenuto in sintesi che l’aggravio imposto da Vodafone nei confronti del recedente costituisse una condotta commerciale aggressiva. 

In appello, Vodafone aveva quindi richiesto la totale riforma della sentenza del TAR e l’annullamento del provvedimento sanzionatorio dell’AGCM. Con il primo motivo, Vodafone aveva dedotto l’incompetenza dell’AGCM a sanzionare le condotte contestate: secondo la società, tali condotte sarebbero disciplinate esclusivamente dal Codice delle comunicazioni elettroniche e dunque suscettibili di sindacato soltanto da parte dell’Autorità Garante delle Comunicazioni (AGCOM). Con il secondo motivo, Vodafone aveva ribadito che la condotta di Vodafone costituiva la legittima attuazione di clausole contrattuali espressamente accettate dai consumatori in questione.

Il CdS, in conformità all’orientamento ormai consolidato della Corte di Giustizia, ha premesso che la competenza sanzionatoria esclusiva in capo all’AGCOM si configurerebbe solo in caso di incompatibilità insanabile nel caso concreto tra le norme in materia consumeristica ed il Codice delle comunicazioni elettroniche, circostanza non verificatasi nel caso di specie.

Riguardo il secondo motivo di appello, il CdS ha accertato l’assenza di una clausola contrattuale che prevedesse espressamente la decadenza automatica da piani rateali o da sconti sul costo di attivazione anche nel caso in cui l’utente avesse esercitato il diritto di recesso a seguito di modifiche unilateralmente imposte da Vodafone. Inoltre, in quanto professionista, Vodafone avrebbe dovuto prefigurarsi che l’applicazione dell’aggravio economico a certe categorie di utenti (ossia i fruitori di piani rateali o di sconti) avrebbe pregiudicato la loro libertà di recedere.

Pertanto, il CdS, ritenendo sussistenti sia l’aggressività delle condotte, sia la mancanza della diligenza esigibile dal professionista, ha respinto il ricorso di Vodafone e ha confermato la sentenza appellata, ribadendo ancora una volta come l’effettiva libertà di scelta del consumatore debba essere tutelata anche a fronte del legittimo esercizio del ius variandi da parte del professionista.

Davide Mancini

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Appalti, concessioni e regolazione / Interdittive antimafia e legittimazione attiva - L’Adunanza Plenaria si pronuncia sulla legittimazione ad agire dei soci e amministratori di una società colpita da interdittiva antimafia

Lo scorso 28 gennaio, con sentenza n. 3/2022, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (l’Adunanza Plenaria) ha statuito che i soci e gli amministratori non sono legittimati ad impugnare l’interdittiva antimafia nei confronti della loro società. Nonostante riguardi un ambito del diritto amministrativo molto specifico, la pronuncia presenta profili di interesse nella parte in cui esamina la questione se sussista o meno in capo ai soci e agli amministratori di una società la legittimazione a ricorrere avverso un provvedimento che non li colpisce in via diretta, ma solo di riflesso, ossia come conseguenza di una sanzione e/o restrizione imposta alla società.

Il provvedimento di interdittiva antimafia, che è di competenza della Prefettura, comporta un’incapacità legale dell’impresa destinataria che non può entrare in nessun rapporto contrattuale con la p.a. (oltre a dover rinunciare a quelli già esistenti) e, dunque, non può ricevere alcun tipo di remunerazione e/o esborso da parte della stessa p.a.   

La risoluzione della questione interpretativa da parte dell’Adunanza Plenaria è stata preceduta da un raffronto tra le due opzioni interpretative ‘in campo’ nella giurisprudenza amministrativa:

(i) un orientamento che riconosce la legittimazione di soci e amministratori ad impugnare le interdittive in questione sul presupposto della necessità di tutelare un loro interesse morale “quali soggetti partecipi degli elementi indiziari da cui viene desunto il pericolo di condizionamento di stampo mafioso”;
(ii) un altro indirizzo che nega tale legittimazione a soci e amministratori e la riconosce solo in capo alla società che è direttamente attinta dal provvedimento afflittivo.

L’Adunanza Plenaria ha scelto la seconda opzione considerandola più aderente al generale principio che consente ad un soggetto di far valere in giudizio diritti o interessi altrui solo in casi tassativamente previsti dalla legge. Questo non è il caso delle interdittive antimafia per le quali la legislazione speciale in materia non prevede una legittimazione straordinaria di soci e amministratori. Né, del resto, secondo l’Adunanza Plenaria, è ravvisabile una posizione giuridica autonoma in capo a soci e amministratori che li legittimi ad un’impugnazione autonoma. Tali soggetti, infatti, non instaurano alcun rapporto diretto con l’amministrazione che emana il provvedimento, ma al più possono subire un pregiudizio indiretto e riflesso per effetto di un diverso rapporto (di natura contrattuale o di altro tipo) che li lega al destinatario diretto del potere esercitato (ossia la società). Sia pure in via velata, la sentenza lascia anche intendere che eventuali lesioni del diritto alla reputazione e dignità possano essere oggetto di doglianza da parte di soci e amministratori davanti al giudice ordinario e non dinanzi al giudice amministrativo.

La sentenza in commento è interessante non solo nella misura in cui risolve una questione interpretativa controversa nel panorama giurisprudenziale, ma anche (e soprattutto) perché pone un chiaro limite all’ammissibilità di impugnazioni, ad opera di soci e amministratori, che riguardano non la loro sfera giuridica in via immediata e diretta, bensì quella della società cui gli stessi appartengono.

Nonostante essi ricavino certamente da una sanzione e/o, più genericamente, da un provvedimento restrittivo nei confronti della loro società un pregiudizio in termini di libertà imprenditoriale, ciò non è sufficiente perché sia riconosciuta loro una legittimazione a ricorrere davanti al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento della sanzione e/o del provvedimento restrittivo.

Alessandro Paccione

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