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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE/Aiuti di Stato e tax rulings – Il Tribunale UE ha annullato la decisione con cui la Commissione aveva imposto ad Amazon di pagare al Lussemburgo €250 milioni di tasse non versate

Con la sentenza pubblicata lo scorso 12 maggio, il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) ha annullato la decisione (la Decisione) della Commissione europea (la Commissione) – emessa in data 4 ottobre 2017 e già oggetto di commento su questa Newsletter – in cui la Commissione aveva ritenuto che il sistema di pressione fiscale ridotta concessa al gruppo Amazon da parte del Granducato del Lussemburgo (il Lussemburgo) fosse contrario all’articolo 107 TFUE e, conseguentemente, aveva imposto allo stesso gruppo Amazon di versare la differenza rispetto alle imposte che avrebbe dovuto versare in assenza della violazione da parte del Lussemburgo per un ammontare di circa €250 milioni.

Al fine di meglio comprendere il ragionamento del Tribunale, occorre ripercorrere – seppur brevemente – alcuni aspetti fattuali chiave della Decisione. In primis, il gruppo Amazon è attivo dal 2006 in Europa tramite due controllate costituite entrambe ai sensi del diritto del Lussemburgo, ossia: (i) Amazon Europe Holding Technologies SCS (Amazon SCS), società detenente i beni immateriali necessari per le attività del medesimo gruppo in Europa che aveva stipulato contratti di licenza e di cessione dei diritti di proprietà intellettuale con alcune società americane del gruppo Amazon (come ad esempio, Amazon Technologies Inc. e A.9.com Inc.); e (ii) Amazon EU S.à.r.l. (Amazon EU), la quale, nel contesto di un accordo di licenza con Amazon SCS, si era impegnata a corrispondere a quest’ultima una royalty annuale come contropartita per l’utilizzo dei relativi diritti di proprietà intellettuale.

Il 6 novembre 2003, nel concedere al gruppo Amazon il tax ruling richiesto, le autorità fiscali del Lussemburgo: (a) hanno sostenuto che Amazon SCS non fosse soggetta ad imposta a causa della sua natura societaria (in quanto società in accomandita semplice); e (b) hanno concluso che, dal punto di vista del trattamento fiscale, la royalty dovuta da Amazon EU ad Amazon SCS fosse assoggettata al metodo del margine netto della transazione (Transactional NET Margin MethodTNMM), ritenendo che Amazon EU fosse il soggetto su cui effettuare l’analisi fiscale.

Ad avviso della Commissione, il citato tax ruling avrebbe ridotto, senza alcuna giustificazione, le imposte versate dal gruppo Amazon in Lussemburgo, in quanto – tramite una sovrastima della stessa royalty – avrebbe permesso di trasferire la maggior parte dei profitti da Amazon EU, soggetta a tassazione in Lussemburgo, ad Amazon SCS, che invece non lo era. Pertanto, la Commissione ha concluso che in tal modo sarebbero stati concessi “vantaggi fiscali selettivi” in violazione della disciplina europea sugli aiuti di Stato.

Come anticipato in apertura del presente commento, tuttavia, il Tribunale ha rigettato la ricostruzione fornita nella Decisione appellata, ritendendola errata sotto diversi profili. In particolare:

(i) in primo luogo, il Tribunale ha sottolineato come la constatazione avanzata dalla Commissione secondo cui il gruppo Amazon avrebbe goduto di un indebito vantaggio si basa su una analisi funzionale di Amazon SCS – considerata quale mero detentore passivo dei beni immateriali interessati – errata. Secondo il Tribunale, infatti, la Commissione ha mancato di tenere in debita considerazione sia le reali funzioni svolte da Amazon SCS relative allo sfruttamento dei beni immateriali, sia i rischi da essa sopportati a tal riguardo;

(ii) in secondo luogo, il Tribunale ha ritenuto che la Commissione non abbia dimostrato la sussistenza di un reale vantaggio a favore del gruppo Amazon, poiché non sussistevano ragioni per poter affermare che la remunerazione di Amazon SCS dovesse essere calcolata sulla base di un semplice trasferimento dei costi di sviluppo dei summenzionati beni immateriali senza tener conto del successivo aumento di valore degli stessi; e

(iii) in ultimo, il Tribunale ha considerato errata la valutazione della Commissione relativa alla remunerazione che sarebbe spettata ad Amazon SCS per il mantenimento della proprietà dei suddetti beni immateriali. A tal riguardo, infatti, il Tribunale – nonostante abbia riconosciuto la possibilità in capo alla Commissione, in caso di operazioni infragruppo, di confrontare l’onere fiscale gravante su una società integrata (come appunto il gruppo Amazon) con quello di una società in una situazione similare ed operante nelle medesime condizioni di mercato – ha affermato che dette attività non possono essere equiparate ad una prestazione di servizi ‘a basso valore aggiunto e, pertanto, l’applicazione da parte della stessa Commissione del tasso di remunerazione più frequente per prestazioni infragruppo a basso valore aggiunto non risulta appropriata nella situazione de quo.

Nonostante la natura ‘transitoria’ – dato il probabile ricorso della Commissione dinnanzi la Corte Europea di Giustizia (CGUE) – la sentenza in esame riveste una particolare rilevanza. Infatti, con la presente pronuncia il Tribunale non ha esitato ad entrare nel merito del ragionamento della Commissione in una materia tanto delicata quanto quella fiscale in particolare nell’ambito della disciplina degli aiuti di Stato. Non resta che attendere la (probabile) futura sentenza della CGUE al fine di appurare se l’approccio del Tribunale sarà confermato o se, invece, verrà preferito il risultato del lavoro istruttorio precedentemente svolto dalla Commissione.

Luca Feltrin
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Concentrazioni e settore digitale – La Commissione europea ha accettato le richieste di rinvio presentate da vari Stati membri per esaminare la proposta di acquisizione di Kustomer da parte di Facebook

Con il comunicato stampa del 12 maggio scorso, la Commissione europea (Commissione) ha annunciato di aver accolto la richiesta presentata, ai sensi dell’art. 22, del Regolamento UE n.139/2004 sul controllo delle concentrazioni (EUMR), da parte di Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Islanda, Italia, Irlanda Paesi Bassi, Portogallo e Romania, di aprire un procedimento comunitario di valutazione dei potenziali effetti anticoncorrenziali derivanti dalla proposta di acquisizione di Kustomer Inc. (Kustomer) da parte di Facebook Inc. (Facebook) (l’Operazione).

Come è noto, Facebook è una società statunitense attiva nello sviluppo di applicazioni per dispositivi mobili che offrono funzionalità di social networking, comunicazione e condivisione di foto e video (Facebook, Instagram) oltre che servizi di messaggistica (Messenger, WhatsApp e Instagram Messaging). Kustomer è invece una start-up statunitense che ha sviluppato ed offre un software di gestione delle relazioni con i clienti, specificamente dedicato al supporto degli operatori dei servizi clienti nella gestione delle comunicazioni con i consumatori.

L’Operazione era stata annunciata da Facebook nel novembre 2020 ma non era stata inizialmente notificata alla Commissione in quanto non raggiungeva le soglie di notifica previste dagli artt. 1(2) e 1(3) EUMR. Al contrario, l’Operazione è stata notificata lo scorso 21 marzo in Austria, unico Stato membro dell’UE le cui soglie minime di notifica per il controllo delle concentrazioni sono state superate. Lo scorso 6 aprile, l’Austria ha tuttavia presentato una richiesta di rinvio alla Commissione, ai sensi dell’art. 22(1) EUMR (la Richiesta di Rinvio) ai sensi del quale una autorità nazionale può chiedere “...alla Commissione di esaminare qualsiasi concentrazione […] che non ha dimensione comunitaria […] ma incide sul commercio fra Stati membri e rischia di incidere in misura significativa sulla concorrenza nel territorio dello Stato o degli Stati membri che presentano la richiesta”. Alla Richiesta di Rinvio austriaca hanno in seguito aderito le autorità della concorrenza di Belgio, Bulgaria, Francia, Islanda, Italia, Irlanda Paesi Bassi, Portogallo e Romania.

La Commissione ha accolto la Richiesta di rinvio, ritenendo che i criteri per il rinvio fossero soddisfatti, in quanto ha rilevato che l’Operazione potrebbe potenzialmente avere un impatto negativo sul mercato per i software di gestione delle relazioni con i clienti e sul mercato per i servizi pubblicitari online. L’Operazione ha anche sollevato talune preoccupazioni circa i potenziali utilizzi da parte di Facebook di tutti i dati personali detenuti da Kustomer, i quali includerebbero anche informazioni sensibili, dato che i settori serviti da quest’ultimo riguardano, inter alia, sanità, governo e servizi finanziari. Da ultimo, anche il valore dell’Operazione, pari a circa 1 miliardo di euro (simile a quanto pagato da Facebook per l’acquisizione di Instagram nel 2012), è secondo la Commissione un indicatore della potenziale rilevanza della concentrazione.

La decisione conferma ancora una volta (seguendo di sole due settimane il rinvio dell’acquisizione di Grail da parte di Illumina, commentato in questa Newsletter lo scorso 26 Aprile) la posizione della Commissione già recentemente espressa negli orientamenti sull’applicazione del meccanismo di rinvio per l’esame delle concentrazioni ex art. 22 (gli Orientamenti), emanati lo scorso 26 marzo 2021 (anch’essi oggetto di commento in questa Newsletter). In particolare, gli Orientamenti incoraggiano gli Stati membri ad utilizzare tale strumento del rinvio al fine di permettere alla Commissione di esaminare concentrazioni che, sulla sola base dei parametri di fatturato, rimarrebbero altrimenti al di fuori dell’ambito di applicazione della EUMR ovvero, eventualmente, dei regimi nazionali di merger control, con particolare (ma non esclusivo) riferimento alle concentrazioni relative al settore farmaceutico e alle start up.

Luca Casiraghi
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Diritto della concorrenza Italia/Abusi di posizione dominante e settore digitale – L’AGCM sanziona Google per non aver integrato l’app per la ricarica elettrica di Enel X in Android Auto

Con il provvedimento pubblicato lo scorso 13 maggio, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha sanzionato Alphabet Inc., Google LLC e Google Italy S.r.l. (congiuntamente, Google) per circa 102 milioni di euro per aver abusato della propria posizione dominante non consentendo l’interoperabilità dell’app JuicePass, sviluppata da Enel X Italia S.r.l. (Enel X Italia), con Android Auto.

Juice Pass è un’app volta a fornire agli utenti un’esperienza completa con riguardo alla ricarica di veicoli elettrici. Tramite l’app è possibile infatti localizzare e prenotare le colonnine, gestire la ricarica ed effettuare il pagamento. L'app è disponibile sull’app store di Android (Google Play) da maggio 2018 ma non è ancora disponibile su Android Auto, una specifica funzionalità di Android che permette di utilizzare le app quando l’utente è alla guida nel rispetto dei requisiti di sicurezza e di riduzione della distrazione.

Secondo l’AGCM, Google, rifiutando ad Enel X Italia di rendere disponibile JuicePass su Android Auto, avrebbe ingiustamente limitato le possibilità per gli utenti di utilizzare la app di Enel X Italia quando sono alla guida di un veicolo elettrico, favorendo in tal modo la propria app di navigazione Google Maps.

L’AGCM ha accertato, in primo luogo, che Google detiene attraverso Android una posizione dominante sul mercato della concessione di licenze per sistemi operativi per dispositivi mobili intelligenti e, attraverso Google Play, una posizione dominante sul mercato dei portali di vendita di applicazioni per Android (Android app store). In particolare, l’AGCM ha sottolineato che in Italia circa i tre quarti degli smartphone utilizzano il sistema operativo Android. Android Auto è parte dell’ecosistema Android: in particolare, estendendo la piattaforma Android all’ambiente auto, mette in relazione costruttori di auto e gli sviluppatori di app con i possessori di dispositivi mobili Android. Secondo l’AGCM, gli sviluppatori di app destinate ad essere utilizzate dagli utenti alla guida di un’auto non potrebbero quindi prescindere da Android Auto per raggiungere la più vasta platea di utenti. In proposito, l’AGCM ha negato la sostituibilità di Android Auto con altre tecnologie per l’uso delle app attraverso le unità di infotainment delle auto (es. MirrorLink e AppleCarPlay). Parimenti, le possibilità e le condizioni di pubblicazione di un’app su Android Auto dipendono interamente dalle scelte di Google e gli sviluppatori non potrebbero che attenersi a queste scelte.

L’AGCM ha quindi accertato che JuicePass e Google Maps sono legate da un rapporto competitivo che origina dal fatto che entrambe offrono servizi funzionali alla ricarica dei veicoli elettrici ma seguendo due approcci opposti: specialistico la prima, generalista le seconda. In particolare, vi sarebbe un’area di sovrapposizione relativamente alla funzione di ricerca delle colonnine di ricarica e delle informazioni sulle stesse - quali l’esatta localizzazione, il numero e le tipologie di presa, gli orari di apertura e la disponibilità. Le due tipologie di app si contendono inoltre la medesima risorsa, ossia il rapporto con l’utente (inteso come fonte di dati). D’altra parte, l’AGCM ha sottolineato l’intenzione di Google di rafforzare la propria offerta di servizi relativi alla ricarica elettrica tramite Google Maps consentendo agli utenti di collegarsi ai siti o alle app dei diversi Mobility Service Provider, ciò che consentirebbe agli utenti di svolgere gran parte dell’esperienza di ricarica attraverso Google Maps. Inoltre, secondo l’AGCM, è ragionevole ritenere che Google possa in futuro integrare le funzioni di prenotazione e pagamento in Google Maps.

In merito alla condotta di Google, il diniego si configura nella mancata collaborazione con Enel X Italia, mediante il rifiuto di fornire i necessari strumenti di programmazione necessari a consentire lo sviluppo di una versione della app JuicePass pubblicabile su Android Auto. JuicePass integra infatti funzioni di ricerca, navigazione, prenotazione delle colonnine di ricarica, ulteriori rispetto a quelle presenti nelle app attualmente pubblicabili su Android Auto (in particolare, app di media, messaggistica, navigazione). Secondo l’AGCM, tale app avrebbe potuto essere resa interoperabile con Android Auto nel pieno rispetto dei requisiti di sicurezza fatti propri da Google. Le soluzioni alternative proposte da Google (es. sviluppo di versioni di JuicePass compatibili con i singoli sistemi di infotainment per auto o l’integrazione delle informazioni sulle colonnine di ricarica in Google Maps) non sono state ritenute accettabili.

Secondo l’AGCM la condotta di Google appare quindi riconducibile a “una condotta omissiva rispetto alla “speciale responsabilità” di garantire l’interoperabilità di Android Auto relativamente al versante degli sviluppatori di app […] che ha comportato una violazione del principio di level playing field consistente in un ingiusto vantaggio della app proprietaria di Google a discapito della app del concorrente Enel X Italia”. In particolare, l’AGCM, richiamando il test Microsoft (T-201/04 Microsoft Corp./Commissione) in materia di rifiuti di concedere in licenza diritti di proprietà intellettuale ha sottolineato:

l’indispensabilità degli strumenti di programmazione per app compatibili con Android Auto affinché gli sviluppatori terzi possano offrire agli utenti finali app utilizzabili alla guida;
l’idoneità della condotta a eliminare una concorrenza effettiva. L’AGCM ha sottolineato che, a causa dell’esistenza di effetti rete (e c.d. fenomeni di winner-takes-all), l’esclusione dell’app JuicePass dalla piattaforma Android Auto, per un periodo di oltre due anni, avrebbe rischiato di compromettere le possibilità per JuicePass di raggiungere una base utenti adeguata, e quindi la sua stessa sopravvivenza;
l’ostacolo alla comparsa di un nuovo prodotto per il quale esiste una domanda potenziale. JuicePass offrirebbe un’esperienza di ricarica completa e specificamente pensata per la ricarica dei veicoli elettrici, che Google Maps non offre. In questo contesto, l’AGCM ha sottolineato anche il rischio di dispersione degli investimenti in tecnologia (per lo sviluppo di una app) e il blocco all’acquisizione di un input (dati generati dagli utenti) necessario per la definizione di offerte commerciali e di una rete di infrastrutture in un settore nuovo e in fase di sviluppo (mobilità elettrica);
l’assenza di una giustificazione oggettiva. Il rifiuto di Google di pubblicare l’app JuicePass su Android Auto non sarebbe dipeso da questioni tecniche ma da una scelta aziendale relativa alla pubblicazione di app su Android Auto, in quanto tale derogabile.

Nel quantificare la sanzione, fissata a circa 102 milioni di euro, l’AGCM ha sottolineato la gravità della condotta di Google alla luce delle potenziali ricadute negative sulla transizione verso una mobilità più sostenibile dal punto di vista ambientale, contrastanti con i piani di sviluppo “verde” e digitale dell’economia dell’UE.

Discostandosi dalla sua prassi amministrativa l’AGCM ha peraltro ritenuto necessario imporre degli obblighi specifici in capo a Google. In particolare, l’AGCM ha imposto a Google di rilasciare un template definitivo per lo sviluppo di app per la ricarica elettrica, accessibile a tutti gli sviluppatori. Il suddetto template dovrà integrare le funzioni indicate come essenziali da Enel X Italia. L’AGCM vigilerà sull’effettiva e corretta attuazione degli obblighi imposti avvalendosi di un esperto indipendente preposto all’attuazione e al monitoraggio degli obblighi imposti.

La decisione in esame è destinata ad accendere un ampio dibattito sull’effettiva indispensabilità dei servizi di Google, nonché del ruolo di un’autorità antitrust di intervenire in maniera dettagliata e prescrittiva nei rapporti tra operatori economici privati che vanno al di là del – pur rilevante – caso di specie. L’AGCM ha infatti interpretato in maniera estensiva gli obblighi di interoperabilità e accesso in capo a Google, illustrando in modo molto dettagliato la condotta che Google dovrà adottare per porre fine alla presunta violazione. Sarà quindi di notevole interesse monitorare gli sviluppi del pressoché certo giudizio di impugnazione, anche considerato che l’AGCM sta monitorando attentamente le condotte delle principali società tech, in linea con l’approccio adottato dalla Commissione europea e le autorità della concorrenza di altri Stati membri.

Luigi Eduardo Bisogno
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Appalti, concessioni e regolazione/Rinvio pregiudiziale e settore delle telecomunicazioni - Il Consiglio di Stato ripropone alla Corte di Giustizia UE il tema dell’integrale rimborso dei costi delle attività di intercettazione disposte dall’Autorità giudiziaria

In data 11 maggio 2021, con ordinanza n. 3707/2021, il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) la questione pregiudiziale relativa alla conformità al diritto UE della disciplina nazionale (art. 96 del d.lgs. n° 259/2003, Codice delle comunicazioni elettroniche) in tema di svolgimento obbligatorio delle attività di intercettazione di flussi di comunicazioni disposte dall’autorità giudiziaria. Il contenzioso da cui trae origine il rinvio pregiudiziale in commento coinvolge alcuni dei maggiori operatori del settore delle telecomunicazioni: Telecom Italia S.p.A. (Telecom), Vodafone Italia S.p.A. (Vodafone), Wind Tre S.p.A. (Wind) e Colt Technology Services S.p.A. (Colt). Tali società hanno impugnato dinanzi al giudice amministrativo il decreto interministeriale del 28 dicembre 2017 (il Decreto) che, in attuazione del citato art. 96, ha stabilito le modalità ed i criteri del rimborso per lo svolgimento delle operazioni di intercettazione di flussi di comunicazioni (anche denominate prestazioni a fini di giustizia) su richiesta e nell’interesse delle autorità giudiziarie.

L’oggetto del contendere riguarda la legittimità del Decreto nella parte in cui prevede un rimborso delle prestazioni a fini di giustizia, rese dagli operatori tlc, che non consente neppure la copertura dei costi sostenuti per il loro svolgimento. L’art. 96 del Codice delle comunicazioni elettroniche prevede si l’obbligatorietà dell’esecuzione delle attività di intercettazione “a fronte di richieste […] da parte delle competenti autorità giudiziarie”. ma delega, inter alia, al Decreto la determinazione delle tariffe, “in modo da conseguire un risparmio di spesa di almeno il 50 per cento rispetto alle tariffe praticate”. Le tariffe definite in concreto a seguito di ciò sono risultate inferiori rispetto ai costi sostenuti dalle società di telecomunicazioni per ottemperare alle richieste delle Procure. Di qui la lamentata illegittimità del Decreto che, secondo la prospettazione delle appellanti, trasformerebbe un’attività obbligatoria in un’attività imposta senza, tuttavia, una copertura normativa di rango primario idonea a giustificare una siffatta coercizione. Le società promotrici del contenzioso avevano posto una duplice questione di legittimità costituzionale e di conformità al diritto UE dell’art. 96, laddove interpretato nel senso di legittimare l’imposizione delle prestazioni a fini di giustizia senza un ristoro integrale dei relativi costi. Nel giudizio di primo grado, il Tar Lazio aveva respinto la totalità delle censure degli operatori confermando la legittimità del Decreto.

Nell’ambito del giudizio di appello, il Consiglio di Stato aveva già in precedenza, con ordinanza del 23 marzo 2020, n. 2040, posto alla CGUE il tema relativo alla compatibilità eurounitaria dell’art. 96 del Codice delle comunicazioni elettroniche. La CGUE aveva, tuttavia, con la sentenza dello scorso novembre, dichiarato irricevibile la questione per via dell’asseritamente incompleta specificazione delle ragioni della scelta delle disposizioni di diritto dell’Unione oggetto dell’invocato intervento dei giudici lussemburghesi. Con l’ordinanza in commento, il Consiglio di Stato ha fornito, dunque, una più esaustiva illustrazione del quadro di norme europee, la cui interpretazione si pone in via pregiudiziale rispetto alla risoluzione della controversia. Il diritto eurounitario, sotto vari profili, sembrerebbe in thesi in contrasto con una normativa nazionale (quale quella dell’art. 96 del Codice delle comunicazioni elettroniche) dal possibile impatto anti-concorrenziale, in quanto potenzialmente discriminatoria a danno di: (a) operatori di dimensioni maggiori, in quanto più esposti a richieste di intercettazioni da parte dell’Autorità giudiziaria; (b) operatori stabiliti in Italia rispetto ad operatori esteri, in quanto questi ultimi, in conseguenza dell’abbattimento delle tariffe per il roaming, potrebbero offrire servizi più convenienti ai clienti italiani acquirenti di SIM straniere e potrebbero, al contempo, godere di un “gradino di accesso” privilegiato nel mercato nazionale.

In attesa della pronuncia della CGUE, è interessante notare che l’ordinanza in commento esprime una posizione del Collegio remittente decisamente a sostegno della compatibilità della disciplina nazionale con gli evocati principi e disposizioni del diritto UE. Nello specifico, secondo il Consiglio di Stato, tali principi e disposizioni non ostano ad una disciplina legislativa che, nel perseguimento di interessi pubblici apicali (come l’efficacia delle indagini penali), comprime la libertà di impresa di operatori privati. Restano, invece, per il momento sullo sfondo le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 96 e, in particolare, la compatibilità con il principio di riserva di legge di un assetto normativo che consente ad una fonte regolamentare di definire in toto le modalità di svolgimento (ivi inclusi i relativi prezzi) di un’attività imposta, a dispetto della sua qualificazione come attività meramente obbligatoria.

Alessandro Paccione
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