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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE/Cartelli e investment banking – La Commissione europea ha sanzionato tre banche per aver posto in essere un’intesa anticoncorrenziale nel mercato del trading di titoli obbligazionari

Con il comunicato stampa dello scorso 28 aprile, la Commissione europea (la Commissione) – a conclusione del procedimento avviato in data 20 dicembre 2018 su segnalazione di Deutsche Bank – ha comunicato di aver sanzionato per un totale di oltre 28 milioni di euro tre delle principali banche d’investimento internazionali - Bank of America Merrill Lynch, Crédit Agricole e Credit Suisse - le quali, insieme alla stessa Deutsche Bank (congiuntamente, le Parti), hanno posto in essere una condotta collusiva, di durata quinquennale, volta a falsare le dinamiche concorrenziali all’interno del mercato finanziario secondario del trading di titoli di stato sovrani, sovranazionali ed emessi da agenzie (congiuntamente Bond SSA) in valuta estera (in particolare, in dollari). Deutsche Bank, avendo permesso alla Commissione di venire a conoscenza della condotta in questione tramite la propria domanda di clemenza (c.d. ‘leniency’), ha beneficiato dell’immunità e non ha subito l’imposizione di alcuna sanzione.

Al fine di meglio comprendere gli aspetti pratici della condotta sanzionata, occorre premettere qualche sommaria considerazione circa le modalità di trading dei Bond SSA. I titoli in questione vengono dapprima immessi sul ‘mercato primario’ (ossia offerti agli investitori istituzionali principalmente tramite aste). In un momento successivo, i Bond SSA vengono scambiati nel ‘mercato secondario’, in cui agiscono banche, trader e investitori privati. È su tale mercato secondo che hanno avuto luogo le condotte sanzionate dalla Commissione.

Le Parti hanno posto in essere la condotta in rilievo tramite alcuni trader i quali – nonostante fossero in concorrenza diretta – si conoscevano personalmente e si scambiavano informazioni commercialmente sensibili connettendosi a chatroom multilaterali (o bilaterali) sui canali messi a disposizione sui terminali Bloomberg. Ciò si traduceva in particolare in un coordinamento sui prezzi d’acquisto e in un allineamento delle strategie di trading.

Come sottolineato dalla Commissione, la collusione verteva su:

i. una generica astensione dal presentare offerte o dal rimuovere (nel gergo utilizzato dai trader, ‘kill’) una particolare offerta in modo da avvantaggiare le Parti coinvolte; e

ii. un accordo di divisione dei trades tra i soggetti coinvolti, tramite cui – attraverso la combinazione delle rispettive offerte – questi miravano a soddisfare la domanda di un determinato cliente senza permettere a quest’ultimo di capire che stava trattando con più di un trader (in questo modo de facto limitando sensibilmente la sua libertà di scelta).

Con la decisione in esame, in linea con quella adottata nel 2015 in relazione ai cc.dd. LIBOR (ossia i London Interbank Offered Rate) ed i TIBOR (i Tokyo Interbank Offered Rate), già oggetto di commento sul questa Newsletter, la Commissione ha dimostrato ancora una volta l’elevato livello di attenzione prestato alla sussistenza di pratiche collusive nel settore finanziario. Tuttavia, al fine di meglio comprendere i dettagli del ragionamento della Commissione, occorrerà attendere la pubblicazione del testo integrale della decisione.

Luca Feltrin
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Diritto della concorrenza Italia/Attività di segnalazione e contratti pubblici – L’AGCM pubblica le proprie osservazioni sugli oneri motivazionali nei casi di affidamenti in-house

Con il documento pubblicato nel Bollettino del 27 aprile scorso, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha presentato le proprie osservazioni nel contesto della consultazione pubblica in merito allo schema di linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) in materia di affidamenti in-house di contratti aventi ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, ai sensi dell’articolo 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016 n.50 (Codice dei contratti pubblici) (le Linee Guida).

L’art. 192 del Codice dei contratti pubblici disciplina il regime dell’in-house providing, ossia quel modello organizzativo in cui la PA, invece di procedere all’affidamento all’esterno di determinati servizi, provvede in proprio alla loro esecuzione, affidandone in via diretta l’appalto o la titolarità del servizio ad altra entità giuridica pubblica senza alcuna gara (in particolare per i servizi di interesse economico generale, i servizi strumentali all’ente e i servizi di committenza). Le stazioni appaltanti devono comunque accertare la congruità economica dell’offerta proposta dai soggetti in-house e motivare adeguatamente il mancato ricorso al mercato, nonché i benefici per la collettività della forma di gestione prescelta.

In primo luogo, l’AGCM condivide l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 192, comma 2 definito dallo schema di Linee Guida, che fa rientrare nei “servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza” anche i servizi che potranno essere disponibili in futuro a seguito di adeguamento da parte dei possibili erogatori, in tempi compatibili con le esigenze dell’amministrazione, nonché i servizi che possono essere concessi in esclusiva ad un unico operatore (attraverso le modalità tipiche della concorrenza “per il mercato”).

L’AGCM rivela al riguardo la propria intenzione di proporre una modifica legislativa tale da anticipare il momento della pubblicazione della motivazione prima del provvedimento di affidamento del servizio. Secondo l’AGCM, ciò garantirebbe ai terzi interessati di formulare le proprie osservazioni e rafforzerebbe l’obbligo della stazione appaltanti di svolgere un’effettiva e concreta indagine comparativa.

Sui criteri e gli obiettivi della valutazione, l’AGCM ha sottolineato che ritiene necessario limitare al massimo la possibilità per le amministrazioni di motivare la rinuncia alla gara esclusivamente sulla base di ragioni legate al perseguimento di obiettivi di interesse generale, che potrebbero sussistere anche nel caso di affidamenti competitivi. Al fine di rendere più trasparenti gli obiettivi delle stazioni appaltanti, l’AGCM propone di definire i contenuti essenziali del contratto di servizio richiesto in un documento finalizzato alle consultazioni di mercato.

Lo strumento delle consultazioni di mercato viene ripreso dall’AGCM in qualità di strumento adatto per l’accertamento della presenza sul mercato dei servizi da affidare. Consentirebbe, infatti, alla stazione appaltante sia di comprendere meglio l’organizzazione del servizio più confacente alle proprie esigenze, sia di verificare l’eventuale interesse degli operatori presenti sul mercato. In tale contesto, l’AGCM valuta positivamente il ricorso a esperti interni o esterni.

In merito alla valutazione della congruità economica dell’offerta, l’AGCM sottolinea l’importanza di utilizzare adeguati benchmark, tenuto conto della performance della società in-house rispetto a quella dell’impresa media del settore gestita in modo efficiente (a tal fine, rilevano in particolare i costi standard del servizio definiti dalle autorità di settore).

In sintesi, con le proprie osservazioni l’AGCM – facendosi promotrice di un approccio orientato alla massimizzazione del libero gioco della concorrenza – spinge per l’adozione di un sistema maggiormente trasparente e procedimentalizzato che vincoli le stazioni appaltanti a effettuare volta per volta una valutazione in concreto della preferenza per l’affidamento in-house, evitando che l’onere motivazionale si risolvi di fatto in un mero adempimento formale assolto ex post.

Luigi Eduardo Bisogno
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Pratiche commerciali scorrette e GDO – Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello del Codacons contro l’iniziativa “Eletto prodotto dell’Anno”

In data 27 aprile 2021, il Consiglio di Stato (CdS) ha respinto l’appello presentato dal Coordinamento di Associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti di utenti e consumatori (Codacons) contro l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) avverso la sentenza n. 1118/2018 del Tribunale Amministrativo del Lazio (TAR). Con tale sentenza, il TAR aveva rigettato il ricorso con cui il Codacons aveva richiesto l’annullamento dei provvedimenti con cui l’AGCM aveva ritenuto infondate le allegazioni del Codacons secondo cui l’iniziativa “Eletto prodotto dell’Anno” proposta dalla società Marketing e Innovazione Italia S.r.l. (MII) costituisse una pratica commerciale scorretta.

Più nello specifico, MII organizza l’edizione italiana della manifestazione “Eletto prodotto dell’anno”, avente lo scopo di valorizzare l’innovazione dei prodotti lanciati sul mercato italiano ed inseriti nel circuito della Grande Distribuzione Organizzata. Con un esposto presentato nell’aprile 2013, il Codacons aveva segnalato all’AGCM che l’intera manifestazione avrebbe costituito una pratica commerciale scorretta per orientare in maniera ingannevole i consumatori verso determinati prodotti, scelti peraltro non già tra tutti quelli posti in commercio, bensì soltanto tra quelli per cui era stata accolta la domanda di iscrizione all’iniziativa in parola.

Come aveva già deciso precedentemente per simili esposti, con una prima nota del 23 settembre 2013 (Nota del 23 settembre 2013), l’AGCM aveva comunicato al Codacons l’archiviazione per “manifesta infondatezza” dell’esposto, motivando unicamente che risultavano “assenti gli elementi di fatto idonei a giustificare ulteriori accertamenti”. Con una successiva nota del 18 aprile 2014 (Nota del 18 aprile 2014), l’AGCM aveva riesaminato la segnalazione del Codacons, confermando l’archiviazione per l’assenza di elementi di fatto idonei a giustificare ulteriori accertamenti. L’AGCM, a sostegno della sua decisione, aveva fornito ulteriori motivazioni, ossia che gli aspetti contestati nella segnalazione erano stati chiariti dalle esaustive informazioni fornite dal professionista, facilmente accessibili sul sito internet www.prodottodellanno.it. Inoltre, il claim Eletto prodotto dell’anno” non assumeva ad avviso dell’AGCM un significato assoluto tale da far apparire il prodotto come il migliore della categoria di appartenenza, atteso che la locuzione “I Consumatori premiano l’innovazione” appare idonea a contestualizzare la natura del processo di selezione adoperato volto, appunto, a premiare l’innovazione nell’ambito dell’operazione commerciale di cui si tratta.

Il Codacons aveva quindi impugnato tali valutazioni di fronte al TAR Lazio che tuttavia lo aveva rigettato. Non volendo rassegnarsi il Codacons proponeva appello al CdS, riproponendo in sostanza i motivi di impugnazione sollevati in primo grado.

In primo luogo, il CdS conviene che MII aveva messo a disposizione dei consumatori e delle imprese sul proprio sito web (www.prodottodellanno.it) tutto il materiale informativo relativo all’iniziativa commerciale di cui trattasi. Tali informazioni risultavano adeguate, complete ed esaustive. Il CdS ha confermato altresì la legittimità dei lamentati profili di ambiguità del claim Eletto Prodotto dell’Anno” in quanto integrati dalla successiva locuzione «i Consumatori premiano l’innovazione», la quale segnalava chiaramente che il criterio selettivo era l’innovazione e non la bontà del prodotto in termini assoluti.

Posto quanto sopra, il CdS ha rigettato tutti i motivi presentati dal Codacons, condividendo pienamente quanto statuito dall’AGCM e fornendo indicazioni utili in tema di compliance dei claim commerciali ai sensi della normativa posta a tutela dei consumatori.

Mila Filomena Crispino
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Legal News/Concorrenza sleale e settore dei media – Il Tribunale di Milano respinge le allegazioni di concorrenza sleale nei confronti di Vivendi per la scalata ostile del capitale di Mediaset

Il Tribunale ordinario civile di Milano (il Tribunale) ha respinto le domande di risarcimento presentate da Mediaset S.p.A. e Reti televisive Italiane S.p.A. (congiuntamente, Mediaset) e Finanziaria di investimento Fininvest S.p.A. (Fininvest, insieme a Mediaset, le Attrici), per il risarcimento dei danni asseritamente causati dalla condotta di Vivendi S.A. (Vivendi) nella realizzazione di una c.d. “scalata ostile” per contendere a Fininvest il controllo di Mediaset.

Secondo quanto sostenuto da Mediaset, nel dicembre 2016 Vivendi avrebbe determinato il fallimento del negoziato finalizzato a realizzare ad operazione di scambio azionario paritetico con Mediaset, avvantaggiandosi del successivo crollo del prezzo dei titoli di quest’ultima sul mercato per acquisire una partecipazione pari al 28,8% del capitale di Mediaset a un prezzo materialmente ribassato. Secondo le Attrici, l’operazione naufragata sarebbe stato nient’altro che un “cavallo di Troia” escogitato da Vivendi per carpire a Mediaset informazioni relative al mercato italiano della pay tv – nel quale Vivendi aveva dichiarato di voler entrare tramite la controllata Telecom Italia. Pertanto, le Attrici avevano allegato l’illiceità della condotta – e la conseguente responsabilità per danni – inter alia ai sensi della disciplina della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. della asserita strumentalizzazione della vicenda negoziale.

La sentenza in discorso fornisce un’importante delimitazione su più fronti del perimetro applicativo dell’illecito di concorrenza sleale. In primis, vis-à-vis il diritto antitrust, individuando nel diverso bene tutelato il criterio distintivo per l’applicazione dell’una o dell’altra normativa. Il Tribunale, infatti, attribuisce alla disciplina antitrust il ruolo di tutela del dinamismo del mercato (nell’interesse prioritario dei consumatori), laddove l’illecito civile di concorrenza sleale è diretto ad accordare tutela privatistica all’imprenditore danneggiato nella propria sfera giuridica dalla condotta scorretta del concorrente.

Poste tali fondamenta dell’analisi, il Tribunale ha rigettato le domande delle Attrici. In particolare, il Tribunale ha rigettato le richieste di Mediaset sulla base dell’assenza di un concreto rapporto di concorrenza tra essa e Vivendi. Secondo le Attrici tale rapporto si sarebbe espletato nell’ambito di un ipotetico mercato europeo dei servizi di pay tv che sarebbe stato oggetto del progetto industriale perseguito sia da Mediaset, sia da Vivendi. Tuttavia, il Tribunale ha escluso che ostacolare la realizzazione del progetto industriale di un (potenziale) concorrente possa ricadere nell’ambito di applicazione della disciplina in discorso. Né, d’altro canto, la qualità di concorrente, anche qualora presente, apparrebbe sufficiente a configurare come illecita la c.d. “scalata ostile” al capitale di Mediaset, che semmai potrebbe tutelarsi secondo il metro del conflitto di interessi tra la società ed il socio nell’esercizio delle proprie prerogative assembleari.

Il Tribunale ha altresì notato che la sola ostilità del titolare incumbent a una manovra di acquisizione di capitale sociale, anche finalizzata a contendere il controllo della società, non determina per se l’illiceità della “scalata”. Diversamente, le prospettate condotte volte alla manipolazione del prezzo di mercato delle azioni di Mediaset potrebbero costituire, in astratto, il reato di manipolazione del mercato, soggetto, peraltro, alla giurisdizione del giudice penale.

La pronuncia in parola traccia in maniera puntuale i confini tra le diverse discipline – civile, penale e amministrativa – a cui sarebbe in astratto riconducibile la condotta della c.d. “scalata ostile” sul mercato azionario. Segnatamente, stabilisce uno spartiacque tra la disciplina civilistica e quella antitrust costituito dalla diversa ratio e bene giuridico tutelato, senza tuttavia che tale distinzione precluda in astratto la sovrapposizione delle due normative, e, per l’effetto, costituisce – rectius, costituirà se confermata – un utile strumento di analisi per raccordarle.

In una diversa sentenza (al momento non pubblicata) avente a oggetto la medesima vicenda, lo stesso Tribunale ha stabilito un risarcimento di 1,7 milioni a carico di Vivendi per avere violato le disposizioni contrattuali che prevedevano l’operazione di scambio azionario paritetico descritta supra.

Riccardo Fadiga
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