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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della Concorrenza UE / Abusi e settore delle telecomunicazioni – La Corte di Giustizia sancisce che Slovak Telekom può essere soggetta alle sanzioni antitrust slovacche anche se è già stata sanzionata dalla Commissione europea

Con la sentenza pubblicata il 25 febbraio scorso, la Corte di Giustizia (CGUE) si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte suprema della Repubblica slovacca, nell’ambito del ricorso di Slovak Telekom a.s. (Slovak Telecom) contro la decisione dall’autorità della concorrenza slovacca che aveva accertato un abuso della sua posizione dominante, sanzionato separatamente anche dalla Commissione europea (Commissione).

Più nel dettaglio: 

- il 21 dicembre 2007, l’autorità della concorrenza slovacca aveva adottato una decisione che constatava un abuso di posizione dominante da parte di Slovak Telekom, risultante dall’adozione di una strategia di compressione dei margini tra i prezzi di servizi di telecomunicazione al dettaglio e quelli per l’interconnessione all’ingrosso. La sanzione imposta a Slovak Telekom è stata pari a circa 17,5 milioni di euro;

- in data 8 aprile 2009, la Commissione ha deciso di avviare un procedimento nei confronti di Slovak Telekom per presunto abuso di posizione dominante sul mercato slovacco. Le pratiche in esame vertevano, inter alia, sul rifiuto di Slovak Telekom di fornire l’accesso disaggregato ai suoi circuiti locali e su una prassi di compressione dei margini per l’accesso all’ingrosso a tali circuiti locali disaggregati nonché ad altri servizi di accesso alla banda larga e a servizi di accesso al dettaglio in Slovacchia. Tali pratiche sarebbero state attuate dal 12 agosto 2005 al 31 dicembre 2010. In esito a tale procedimento, nel 2014 la Commission sanzionava in solido Slovak Telecom e la società madre Deutsche Telekom per circa 38,3 milioni di euro (tale decisione è attualmente oggetto di ricorso dinanzi la CGUE);

- Slovak Telecom ha impugnato la sentenza di primo grado che confermava la decisione dell’autorità slovacca dinanzi la Corte suprema nazionale, la quale ha espresso dubbi quanto alla compatibilità della condanna di Slovak Telekom per un abuso di posizione dominante consistente in una compressione dei margini da parte dell’autorità slovacca in presenza di un parallelo procedimento della Commissione, con il principio del riparto delle competenze nonché con il divieto della doppia incriminazione (ne bis in idem).

Nella propria sentenza, la CGUE, chiamata ad esprimersi proprio sull’osservanza di tali principi, in quanto parti integranti dell’ordinamento comunitario: 

- in primo luogo, ha ricordato che, ai sensi del Regolamento UE n.1/2003, le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri (national competition authorities, NCA) perdono la loro competenza ad applicare le disposizioni relative alla tutela della concorrenza allorché la Commissione avvia un procedimento per adottare una decisione che constati una violazione di tali disposizioni; la CGUE sottolinea, tuttavia, che l’espressione “avvio da parte della Commissione di un procedimento” delimita, a livello materiale, la portata dell’esautoramento delle NCA ad opera della Commissione. Tale esautoramento, infatti, si riferisce unicamente ai fatti oggetto del procedimento avviato dalla Commissione. Di conseguenza, le NCA sono private soltanto della loro competenza a perseguire le stesse imprese per le medesime presunte condotte anticoncorrenziali, necessariamente intervenute sugli stessi mercati, di prodotto e geografici, nel corso dello stesso periodo. La ratio di tale disciplina è quello di garantire la “gestione ottimale della rete delle autorità pubbliche” senza che ciò vada “a scapito delle imprese”;

- pur riconoscendo che è il giudice nazionale a dover valutare la portata di una decisione di un’autorità nazionale garante della concorrenza come quella contestata, la CGUE ha constatato che i procedimenti condotti dalla Commissione e dall’autorità slovacca nei confronti di Slovak Telekom avessero avuto per oggetto pretesi abusi di posizione dominante su mercati del prodotto distinti. In particolare, nel procedimento della Commissione, le condotte riguardavano la compressione dei margini in relazione all’accesso all’ingrosso alla rete locale disaggregata e il mercato al dettaglio di massa per i servizi a banda larga da postazione fissa. Al contrario, il procedimento dinnanzi all’autorità slovacca verteva sui mercati all’ingrosso e al dettaglio dei servizi di telefonia vocale e dei servizi di accesso a internet a banda stretta per accesso commutato;

- la CGUE ha quindi rilevato che il principio del ne bis in idem non trovasse applicazione nel caso di specie, in cui i mercati di prodotto erano distinti, mancando così il prerequisito dell’identità dei fatti.

In sintesi, la CGUE ha ribadito il principio per cui non ci possono essere procedimenti paralleli solo nel caso in cui le condotte in esame si sovrappongano perfettamente.

Tale posizione appare rilevante nel contesto del ricorso di Amazon contro la decisione della Commissione di aprire un’istruttoria sulla cosiddetta “Buy Box” (ossia il riquadro della scheda prodotto dal quale l'utente può aggiungere l'articolo nel carrello oppure acquistarlo subito, si veda la Newsletter del 16 novembre scorso) escludendo espressamente l’Italia, dove è in corso un'indagine sostanzialmente analoga (si veda la Newsletter del 23 aprile 2019). La decisione in esame potrebbe essere usata dalla Commissione per argomentare che tra le due indagini non sussiste una sovrapposizione dei mercati geografici, anche se la tipologia dei servizi offerti è la medesima. Amazon, d’altro canto, potrebbe controbattere che esse contrastano con l’obiettivo di garantire una gestione ottimale della rete delle autorità pubbliche, richiamando il principio generale affermato dalla stessa sentenza qui in esame.

Luigi Eduardo Bisogno
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Aiuti di Stato e settore bancario – Il Tribunale dell’UE riconosce la legittimazione ad agire di alcuni fondi che avevano investito in Banca MPS contro la decisione della Commissione che aveva approvato le misure di ristrutturazione concesse alla banca

Con la sentenza del 24 febbraio, il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) ha riconosciuto l’interesse e la legittimazione ad agire di alcuni fondi detentori di obbligazioni emesse dalla Banca Monte dei Paschi di Siena (i Ricorrenti) che avevano chiesto l’annullamento della decisione della Commissione europea (Commissione) sugli aiuti di Stato concessi dalle autorità italiane per la ricapitalizzazione dell’istituto bancario.

Nel 2008 la BMPS aveva approvato un aumento di capitale riservato alla J.P. Morgan Securities Ltd, che aveva sottoscritto le “azioni FRESH” della Banca. La JPM deteneva la nuda proprietà delle azioni, mentre la BDPS ne manteneva l’usufrutto. I due soggetti avevano altresì stipulato un accordo di scambio societario, noto come “contratti FRESH”. La JPM aveva ottenuto i fondi per la sottoscrizione dalla Mitsubishu UFJ, che aveva emesso le obbligazioni FRESH ai sensi del diritto lussemburghese e stipulato con i detentori un contratto fiduciario, in virtù dei quali i canoni che la JPM riscuoteva dalla Banca a titolo dei contratti FESH erano trasmessi dalla MUJF e poi ai detentori delle obbligazioni sottoforma di cedole. Nel 2017 la Commissione si era pronunciata favorevolmente sugli aiuti di Stato proposti dalle autorità italiane a favore del Monte dei Paschi, considerandoli compatibili con l’art. 107, para. 3, lett. b) TFUE. Gli aiuti consistevano in due diverse misure: (i) un sostegno alla liquidità di 15 miliardi sotto forma di garanzie statali su debiti di primo grado¸ e (ii) un aiuto alla ricapitalizzazione precauzionale della Banca. Tali misure erano subordinate a forme di condivisione degli oneri con i detentori di azioni e titoli e presupponevano la risoluzione dei suddetti “contratti FRESH”.

I Ricorrenti chiedevano l’annullamento della decisione per cinque diversi motivi: (i) illegittimità delle misure di condivisione degli oneri, (ii) illegittimità della richiesta di annullamento dei “contratti FRESH”, (iii) discriminazione dei detentori di obbligazioni FRESH rispetto ai detentori di altre categorie di obbligazioni, (iv) violazione dei diritti di proprietà dei detentori delle obbligazioni, (v) violazione dell’art. 108, para 2 e 3, TFUE per non avere avviato un procedimento formale (quindi con il potenziale coinvolgimento attivo dei Ricorrenti) seppure sussistessero “seri dubbi” sulla compatibilità delle misure di condivisione degli oneri con il diritto UE. La Commissione eccepiva l’irricevibilità del ricorso per carenza dell’interesse e della legittimità ad agire.

Con la sentenza qui in commento, il Tribunale si è occupato ora di questi ultimi profili, conformandosi alla passata giurisprudenza della Corte; ciò, sia per quanto concerne la definizione della nozione di “soggetto interessato”, sia nel determinare i criteri rilevanti per la sussistenza dell’interesse. In particolare, i Ricorrenti sono qualificabili come soggetti interessati in quanto la decisione della Commissione incide concretamente sulla loro situazione, dal momento che l’annullamento della stessa consentirebbe di giungere alla definizione di una diversa condivisione degli oneri. Quanto all’interesse ad ottenere l’annullamento della decisione, la giurisprudenza della Corte richiede che esso sia esistente e attuale, spettando ai Ricorrenti di giustificarlo in maniera pertinente. Nel caso di specie il Tribunale ha evidenziato l’esistenza di un nesso inscindibile fra la valutazione della Commissione sugli aiuti di Stato e la risoluzione dei contratti FRESH su cui erano stati chiamati a pronunciarsi i giudici lussemburghesi. L’annullamento della decisione farebbe venire meno l’obbligo per le autorità italiane di rispettare gli obblighi di condivisione e il piano di ristrutturazione, basato sulla risoluzione dei contratti FRESH, non vincolerebbe più il Monte dei Paschi. Alla luce di ciò, il Tribunale ha ritenuto che le Ricorrenti avessero sufficientemente dimostrato che l’eventuale annullamento della decisione avrebbe procurato loro un beneficio.

Parimenti, il Tribunale ha affermato la sussistenza della legittimazione ad agire, dal momento che la Commissione avrebbe dovuto iniziare un procedimento formale ai sensi del Reg. 2015/1589, piuttosto che limitarsi ad una decisione preliminare assunta in soli sei giorni, poiché sussistevano seri dubbi sulla compatibilità degli aiuti con il mercato interno. Soltanto in tal modo, infatti, le parti avrebbero potuto esercitare pienamente i propri poteri processuali.

Il Tribunale ha dunque respinto l’eccezione di irricevibilità del ricorso, affermando che occorrerà poi esaminare nel merito la fondatezza dei motivi di ricorso presentati dai Ricorrenti.

Elena Mandarà
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Diritto della concorrenza Italia / Intese e diritti audiovisivi – Avviata dall’AGCM un’istruttoria nei confronti di SIAE e di diverse associazioni di categoria della filiera audiovisiva su una potenziale intesa anticoncorrenziale

 Con il Provvedimento n. 28548 dello scorso 2 febbraio 2021 (il Provvedimento), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avviato un’istruttoria nei confronti della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE) e di diverse associazioni di categoria, tra cui l’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali (ANICA), l’Associazione Produttori Audiovisivi (APA) e Univideo (Univideo), al fine di accertare l’esistenza di un’intesa anticoncorrenziale consistente nella ripartizione dei mercati relativi alla distribuzione del Compenso Copia Privata (CCP) nel settore video, finalizzata ad ostacolare l’ingresso di operatori di c.d. collecting in tali mercati.

Il CCP, ai sensi dell’articolo 71-sexies e seguenti della legge n. 633/1941 (c.d. “legge sul diritto d’autore”, LDA), è definibile come il compenso destinato agli autori, ai produttori e agli artisti, interpreti ed esecutori (questi ultimi, di seguito, AIE) a fronte delle utilizzazioni delle opere effettuate per scopi non professionali. Esso si applica su supporti vergini, apparecchi di registrazione e schede di memoria, in cambio della possibilità di effettuare registrazioni, esclusivamente a uso privato, di opere protette dal diritto d’autore. I soggetti tenuti a versare il CCP sono i produttori (o gli importatori) di tali apparecchi che, nello specifico, devono trasmettere trimestralmente alla SIAE una dichiarazione dalla quale risultino le “cessioni effettuate e i compensi dovuti” e, contestualmente, devono corrispondere tali compensi alla SIAE. L’entità del CCP è stabilita con decreto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. La SIAE, ai sensi dell’articolo 71-octies, comma 3, LDA, è a sua volta tenuta a ripartire “anche tramite le loro associazioni di categoria maggiormente rappresentative”, il 30% del compenso agli autori, mentre il restante 70%, in parti uguali, tra i produttori originari di opere audiovisive, i produttori di videogrammi e gli AIE.

Orbene, nonostante la norma appena richiamata indichi espressamente che la SIAE possa operare la ripartizione del CCP anche (ma non solamente) tramite associazioni di categoria, l’AGCM ha constatato nel Provvedimento che negli ultimi anni essa si sia servita esclusivamente di tali associazioni, senza permettere l’ingresso di alcuna società di collecting terza, diversamente da quanto avviene invece nel settore audio, dove sono attive diverse società indipendenti.

Sulla base alle segnalazioni pervenute all’AGCM, gli ostacoli principali all’ingresso delle società di collecting nel mercato per la ripartizione del CCP nel settore video consisterebbero sostanzialmente in due accordi, piuttosto risalenti nel tempo (rispettivamente del 1998 e del 1993) ma ancora in vigore, tra la SIAE e le associazioni di categoria ANICA, APA e Univideo. Il primo dei due accordi, siglato il 2 novembre 1998, prevederebbe una precisa suddivisione della parte di CCP destinata ai produttori di videogrammi. Infatti, ai sensi di tale accordo, la SIAE verserebbe ogni anno il 65% di tale quota all’ANICA, in quanto rappresentante dei produttori cinematografici e il restante 35% all’APA, che rappresenta invece i produttori televisivi. Similmente, la ripartizione della quota spettante ai produttori di videogrammi sarebbe stata affidata, sulla base di un accordo stretto l’8 febbraio 1993, dalla SIAE ad Univideo, in quanto associazione maggiormente rappresentativa della categoria. Di conseguenza, secondo quanto affermato dall’AGCM nel Provvedimento, la ripartizione del CCP così pianificata estrometterebbe le società collecting da qualunque possibile ruolo nella distribuzione primaria, lasciando loro la possibilità di richiedere alle associazioni, in via secondaria, la quota di CCP spettante alle società di cui hanno un mandato per riscuoterlo.

Tuttavia, dalle segnalazioni di Videorights, una società di collecting indipendente, sarebbe anche emerso che la SIAE e le associazioni di categoria avrebbero posto in essere una serie di comportamenti volti ad ostacolare l’operato delle società collecting anche nella fase di distribuzione secondaria. In particolare, Videorights ha lamentato continue difficoltà, in sede di erogazione del CCP da parte delle associazioni agli aventi diritto, continue difficoltà ad incassare il compenso dovuto per poi distribuirlo ai propri rappresentati, nonché tempi eccessivamente lunghi per ottenere riscontri dalle varie associazioni.

Pertanto, alla luce delle segnalazioni pervenute e delle considerazioni svolte nel Provvedimento, l’AGCM ha deciso di avviare un’istruttoria al fine di verificare se gli accordi del 1993 e 1998 e i comportamenti potenzialmente ostruzionistici della SIAE e delle associazioni di categoria costituiscano o meno un’intesa vietata, in grado di comprimere la capacità delle società collecting di offrire una gamma completa di servizi alle diverse categorie di titolari di diritti audiovisivi.

Luca Casiraghi
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Tutela del consumatore / PCS e trasmissione di eventi sportivi – L’AGCM sanziona Sky per non aver rimborsato i propri clienti per la mancata trasmissione degli eventi sportivi a causa della pandemia di Covid-19

Con la decisione del 9 febbraio 2021, pubblicata in data 22 febbraio scorso (la Decisione), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha sanzionato la società Sky Italia S.r.l. (Sky) per un ammontare complessivo di € 2 milioni per aver posto in essere tre distinte pratiche commerciali scorrette (PCS) ai danni dei propri clienti titolari dei pacchetti sportivi ‘Sky Calcio’ e ‘Sky Sport’ (congiuntamente, i Pacchetti).In particolare avrebbe impedito a questi ultimi, o reso loro particolarmente difficoltoso, richiedere ed ottenere la rimodulazione dei canoni mensili e il loro rimborso successivamente alla sospensione delle gare sportive dovuta al presentarsi dell’emergenza sanitaria tutt’ora in corso.

Secondo quanto sostenuto dall’AGCM, le PCS in questione consistevano: (i) nel mancato riconoscimento automatico della rimodulazione e/o del rimborso dei canoni mensili relativi ai suddetti Pacchetti (c.d. ‘Sconto Coronavirus’ - lo Sconto), dovuto a causa della sospensione delle gare sportive per tutto il periodo di tempo interessato (Condotta A); (ii) nell’adozione da parte di Sky di una strategia informativa e comunicativa concernente la sussistenza del summenzionato Sconto caratterizzata da una evidente inadeguatezza circa le informazioni sulla natura dello stesso, sulle modalità per richiederlo nonché sulle relative tempistiche (Condotta B); e (iii) nell’imposizione di ostacoli alla fruizione dello Sconto in esame (Condotta C). In particolare:

- in merito alla Condotta A, Sky, successivamente alla cancellazione delle partite di calcio e degli altri eventi sportivi programmati sui propri canali a causa dell’emergenza sanitaria, non avrebbe riconosciuto in automatico a favore dei propri abbonati un rimborso per il periodo interessato da detta cancellazione. Sky, infatti, si sarebbe limitata a prevedere la possibilità, per i clienti abbonati, sia via digitale terrestre (DTT), sia via satellite (DTH), ai detti Pacchetti, di richiedere uno sconto sui canoni mensili per i mesi di marzo, aprile e maggio 2020. In altre parole, tale Sconto necessitava di una precisa ed esplicita richiesta da parte del cliente e mancava, quindi, del necessario livello di automaticità. Ad avviso dell’AGCM, Sky avrebbe dovuto “intervenire in modo tempestivo” al fine di modificare i vari abbonamenti annuali e garantire una riduzione dei relativi canoni che tenesse in considerazione il protrarsi dell’emergenza sanitaria, nonché rimborsare (almeno in parte) i canoni già riscossi. Alla luce del fatto che è individuabile come PCS non solo la violazione delle norme tecniche ma anche il comportamento del professionista contrario a buona fede ovvero “… a ciò che il consumatore ragionevolmente poteva attendersi …”, l’AGCM ha sottolineato come tale Condotta A abbia falsato in misura apprezzabile il comportamento del consumatore medio;

- per quello che riguarda la Condotta B, l’AGCM ha fermamente rigettato l’argomento difensivo di Sky secondo cui detto Sconto costituiva meramente una misura di ‘caring’ da parte della stessa e, pertanto, la scelta dei mezzi comunicativi impiegati rientrava nell’alveo della propria autonomia imprenditoriale. Ad avviso dell’AGCM, infatti, lo Sconto – in quanto dedicato ai soli abbonati titolari dei Pacchetti – aveva natura negoziale connessa agli effetti dell’emergenza sanitaria e pertanto avrebbe dovuto essere oggetto di un’informativa sensibilmente più adeguata. I soggetti interessati, invece, potevano trovare le relative informazioni solo in un’area specifica (e non di immediata ricezione) del sito internet o dell’app di Sky (la c.d. ‘Area Fai da Te’) e le modalità di adesione allo Sconto differivano per i clienti DTT e per quelli DTH. Inoltre, né l’homepage né l’area del sito internet di Sky appositamente dedicato all’emergenza di Covid-19 riportava alcunché relativamente al suddetto Sconto. A tal proposito molti consumatori si sono lamentati circa il fatto “di non essere stati in alcun modo informati” in merito a detto Sconto. In altre parole, Sky non ha permesso ai propri abbonati – secondo l’AGCM – di venire a conoscenza in modo adeguato dell’esistenza dello Sconto, nonché dei tempi e delle modalità per aderirvi, agendo così in netta violazione della normativa di cui al Codice del Consumo;

- infine, sulla Condotta C, l’AGCM ha sostenuto che molti consumatori non avrebbero avuto la possibilità di richiedere lo Sconto a causa di problematiche – di cui Sky era “pienamente consapevole” – legate alla procedura online di richiesta. In aggiunta, l’AGCM ha sostenuto che Sky, nonostante le suddette problematiche, avrebbe continuato a riconoscere l’applicazione dello Sconto solo a partire dalla richiesta, anche se questa è stata ritardata dalle indicate criticità sperimentate dal suo canale web. Inoltre – esclusivamente per i clienti DTH – il modulo (nonché la relativa informazione) era contenuto nell’area riservata alla disdetta dal contratto. In ultimo, l’AGCM ha contestato a Sky di aver immotivatamente rifiutato l’applicazione dello Sconto alle richieste pervenute dai clienti che avevano precedentemente presentato richiesta di disdetta per i Pacchetti interessati (i quali tuttavia vedevano la scadenza del loro periodo di validità successivamente al periodo esaminato). Alla luce di ciò, l’AGCM ha concluso che Sky ha imposto “ostacoli onerosi e sproporzionati” alla fruizione dello Sconto.

Con la Decisione in esame, l’AGCM ha quindi confermato il proprio approccio di particolare severità nei confronti delle condotte collegate al contesto della crisi pandemica nonostante nel caso di specie, il servizio alla base delle pratiche scorrette individuate, ossia la mancata trasmissione delle partite di calcio a causa della sospensione del campionato, alla fine era stato reso in maniera completa, senza che ai consumatori fosse derivato alcun effettivo danno.

Luca Feltrin
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