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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE/Intese e settore dei cavi elettrici – La Corte di Giustizia respinge l’appello di Pirelli S.p.A.: confermata la condanna della Commissione Europea basata sulla presunzione dell’esercizio di un’influenza determinante

Con la sentenza del 28 ottobre 2020 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha rigettato l’appello proposto da Pirelli & C. S.p.A. (Pirelli o Ricorrente) avverso la sentenza con cui il Tribunale dell’UE (Tribunale) aveva confermato la decisione con cui la Commissione Europea (Commissione) aveva accertato la sua partecipazione ad un’intesa in violazione dell’art. 101 TFUE nel settore dei cavi elettrici (la Decisione).

In particolare, Pirelli era stata ritenuta responsabile (e condannata in solido al pagamento della relativa sanzione) in via indiretta per l’infrazione commessa da alcune società delle quali essa deteneva la totalità del capitale sociale, (la Pirelli Cavi e Sistemi S.p.A. (Pirelli CS) e la Pirelli Cavi e Sistemi Energia S.p.A. (Pirelli CSE), che avevano partecipato direttamente all’infrazione), esclusivamente in virtù dell’applicazione della presunzione della “responsabilità della controllante”, ossia la c.d. parental liability. Sulle censure relative a tale aspetto si concentra questa sintesi.

La CGUE ricorda come tale presunzione prende le mosse dalla nozione di impresa rilevante ai fini antitrust, che identifica qualsiasi entità, a prescindere dallo status giuridico, che svolga un’attività economica. La nozione di impresa individua un’unità economica, anche quando tale unità economica sia composta da più persone fisiche o giuridiche. Da ciò, secondo la CGUE, consegue che, qualora l’unità economica violi le norme della concorrenza, essa è tenuta, in una (a dire il vero “originale”, secondo il diritto interno) applicazione del principio della responsabilità personale, a rispondere dell’infrazione. Seguendo questa logica, qualora una società controllata commetta una violazione antitrust, potrà essere chiamata a risponderne anche la società madre qualora la società controllata non determini autonomamente la propria condotta sul mercato ma agisca essenzialmente applicando le istruzioni della società madre che esercita su di essa un’influenza determinante. In virtù di una giurisprudenza consolidata a livello comunitario, tuttavia, nell’ipotesi in cui il capitale della controllata sia interamente (o quasi interamente) detenuto dalla società madre, l’esercizio di una siffatta influenza determinante può presumersi. Tale presunzione, però, è relativa, in quanto ammette che la società madre che detiene la totalità del capitale della controllata che ha commesso l’infrazione possa dimostrare che la controllata determina il proprio comportamento sul mercato in maniera autonoma.

Ciò posto, la CGUE ha condiviso quanto ritenuto da Tribunale, che aveva respinto la contestazione della Ricorrente secondo cui la presunzione suddetta avrebbe concretato una violazione del principio della responsabilità personale, chiarendo che, al contrario, la presunzione costituisce un’applicazione di detto principio, alla luce delle (si ribadisce, “originali”) considerazioni richiamate sopra sull’unità economica.

Inoltre, il Tribunale in primo grado aveva concluso - in merito alle censure della Ricorrente circa la presunta violazione del principio di presunzione di innocenza - che la difficoltà di fornire la prova contraria idonea a superare la presunzione non implica di per se la trasformazione della presunzione da relativa ad assoluta. Al riguardo, il Tribunale aveva chiarito che “…la presunzione dell’esercizio effettivo di un’influenza determinante non è contraria al principio di legalità né a quello della presunzione d’innocenza, e non conduce, […] ad un’inversione assoluta e irrimediabile dell’onere della prova. Pertanto, essa neppure viola i diritti di difesa…”.

Queste considerazioni sono state confermate dalla CGUE, che ha respinto l’argomento della Ricorrente secondo cui la presunzione, nella misura in cui riguarda la responsabilità della società madre per i comportamenti della controllata non ammetterebbe prova contraria, affermando che esso sarebbe basato su una errata interpretazione della nozione di presunzione. Infatti - ribadisce la CGUE - qualora la società madre fornisca la prova dell’autonomia della propria controllata non potrebbe essere ritenuta responsabile dell’infrazione compiuta da quest’ultima.

E’ stata poi rigettata anche la censura con cui la Ricorrente lamentava una violazione del principio di proporzionalità: la CGUE, infatti, ha ribadito che la presunzione circa l’esercizio effettivo dell’influenza determinante è proporzionata alla finalità perseguita, ossia quella di garantire un equilibrio tra l’esigenza di garantire la repressione delle infrazioni e prevenirne la ripetizione, da un lato, e i principi dell’Unione, tra cui quello della presunzione di innocenza, di personalità delle pene e di certezza del diritto, nonché dei diritti di difesa e del principio della parità delle armi, dall’altro. Sul punto, prosegue la CGUE, non rileva – ai fini del riconoscimento della responsabilità della società madre - che la controllata fosse solvibile e in grado di provvedere da sola al pagamento della sanzione.

Inoltre, con riguardo alla censura secondo cui il Tribunale non avrebbe preso in esame alcuni argomenti avanzati dalla Ricorrente ai fini del superamento della presunzione, la CGUE conferma che, per ragioni di natura processuale, il Tribunale non aveva errato nel non prenderli in esame e, ad abundantiam, aggiunge che, in ogni caso, nessuno di tali argomenti sarebbe stato in grado di dimostrare che la presunzione non era applicabile al caso di specie. Detti argomenti  concernevano, inter alia: la circostanza che, al momento dell’adozione della Decisione la Ricorrente non avrebbe avuto, ormai da anni, alcuna relazione con Pirelli CSE (che era stata ceduta prima della fine dell’infrazione); il fatto che per tutto il periodo dell’infrazione, la Ricorrente non sarebbe stata in alcun modo coinvolta nelle condotte illecite delle controllate, non avendo alcuna conoscenza dell’infrazione in questione, e che dunque non avrebbe dunque potuto intraprendere alcuna azione per determinarne la cessazione; nonché il fatto che non avrebbe avuto alcuna concreta possibilità di difendersi nel merito durante la procedura amministrativa, non disponendo essa al proprio interno di alcuna fonte o risorsa umana da cui attingere informazioni utili relative alle censure rivolte contro la sua ex controllata Pirelli CSE.

La sentenza in esame pone un ulteriore tassello nel mosaico delle pronunce riguardanti l’annosa questione dell’applicazione, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell’illecito anticoncorrenziale, della presunzione dell’esercizio dell’influenza determinante da parte di una società madre che detiene l’intero capitale sociale di una società controllata direttamente coinvolta in una condotta anticompetitiva. E se, da un lato, è comprensibile la finalità di deterrenza connessa ad una tale presunzione frutto – è bene ricordarlo - di una elaborazione giurisprudenziale, pur a fronte dei chiarimenti forniti dalla CGUE non è ancora chiaro come, in concreto, tale presunzione possa essere superata dalla società madre. Ad oggi, infatti, non risultano casi in cui tale presunzione sia stata ribaltata nel merito; invero la giurisprudenza Edison si limita a porre in rilievo le circostanze in cui una decisione della Commissione può risultare viziata per difetto di motivazione ma non entra nel merito del superamento della presunzione.

Ciò rende legittime le perplessità circa le caratteristiche della presunzione in parola che, sino a questo momento, sembrerebbe atteggiarsi come – di fatto – assoluta, continuando così a sollevare dubbi sulla legittimità di siffatto regime rispetto ai principi fondamentali inter alia di personalità della pena (anche in ragione dell’uso della nozione di “unità economica” in tale contesto).

Roberta Laghi
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Aiuti di Stato e settore bancario – L’Avvocato generale propone alla Corte di Giustizia di respingere il ricorso della Commissione contro la sentenza del Tribunale dell’Ue di annullamento dell’accertamento di un aiuto dell’Italia a favore di Banca Tercas

L’Avvocato Generale Tanchev (AG) ha presentato le proprie conclusioni nel caso Commissione contro Italia e altri, relativo alla qualificazione come aiuti di Stato di alcune misure che avrebbero favorito Banca Tercas (Tercas).

In particolare, nell’ambito di un’offerta di sottoscrizione di capitale di nuova emissione di Tercas, Banca Popolare di Bari (BPB) aveva richiesto e ottenuto che il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) coprisse le perdite di Tercas. Il FITD è un consorzio obbligatorio di diritto privato di banche supervisionato da Banca d’Italia (BdI) che può adottare misure a vantaggio dei propri membri e in particolare garantirne i depositi. Nell’ambito della negoziazione con BPB, Tercas ha ottenuto da FITD che quest’ultimo prestasse alcune garanzie a suo favore.

Nel 2015, la Commissione europea (Commissione) aveva concluso che tali misure costituissero un aiuto di Stato concesso dall’Italia a favore di Tercas. L’impugnazione della sentenza con cui il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) ha annullato tale decisione, escludendo che le misure prestate da FITD a favore di Tercas costituissero l’uso di risorse dello Stato e fossero imputabili allo Stato, è attualmente pendente dinnanzi la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE).

In tale contesto, l’AG ha ora proposto che la CGUE rigetti l’appello della Commissione. In primo luogo, l’AG ritiene insoddisfacente l’argomento della Commissione secondo cui il Tribunale avrebbe applicato uno standard probatorio eccessivamente oneroso rispetto alla prova che una misura assunta da un ente di diritto privato come FITD fosse imputabile allo Stato. Infatti, l’AG ritiene che il Tribunale abbia semplicemente rilevato che BdI non avesse la possibilità di modificare il contenuto delle misure concesse a favore di Tercas, escludendo l’imputabilità delle misure allo Stato italiano. In secondo luogo, l’AG ritiene che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, la CGUE non abbia applicato uno standard probatorio eccessivamente oneroso anche relativamente alla prova che le misure fossero state finanziate con risorse dello Stato, considerato che nel caso in discorso esse provenivano da un organismo di diritto privato.

La decisione della CGUE verterà dunque sui profili probatori del caso, e risulterà interessante per chiarire lo standard cui la Commissione deve attenersi nei casi relativi ad aiuti di Stato per provare i due requisiti sopra ricordati, i.e. natura statale delle risorse e imputabilità dei comportamenti allo Stato, che risultano generalmente dirimenti nei casi che coinvolgono enti di diritto privato come il presente.

Riccardo Fadiga
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Revisione della VBER - La Commissione ha pubblicato la nuova Valutazione di Impatto Iniziale per la revisione del regolamento (UE) n. 330/2010 e degli Orientamenti sulle Restrizioni Verticali, con potenziali significativi cambiamenti anzitutto per le vendite online

Lo scorso 23 ottobre 2020, la Commissione Europea (la Commissione) ha pubblicato la Valutazione di Impatto Iniziale (la Valutazione) relativa alla proposta di modifica del regolamento (UE) n. 330/2010, che disciplina l’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate (la VBER), la cui validità volgerà al termine il 31 maggio 2020. La Valutazione affronta anche le possibili modifiche alle linee guida contenute negli “Orientamenti sulle Restrizioni Verticali” (gli Orientamenti) della Commissione.

La Commissione rileva in primo luogo che l’attuale VBER, che stabilisce i criteri generali per una esenzione “di blocco” dall’art. 101 TFEU per le intese verticali (quali gli accordi di distribuzione), è stata adottata nel 2010, quando alcune dinamiche concorrenziali a livello verticale erano diverse da quelle odierne. A tal proposito, la Valutazione evidenzia come parte della normativa non sia più adeguata a causa dei rapidi sviluppi degli ultimi anni nel mercato europeo, in particolare con riferimento alla crescita del commercio elettronico e alla nascita di nuovi operatori del mercato, come ad esempio le piattaforme marketplace online.

Proprio a causa dell’accresciuta importanza dei mercati online, uno degli aspetti su cui la normativa potrebbe subire rilevanti modifiche è quello relativo alla disciplina della c.d. “doppia distribuzione” (anche “dual distribution”), ossia la situazione in cui un produttore vende i propri beni o servizi direttamente ai clienti finali, in concorrenza con i suoi distributori al dettaglio. Nella Valutazione emerge infatti che, con la crescita delle vendite online, sono aumentate in modo significativo anche i casi di dual distribution e, essendo oggi tali situazioni esaminate verticalmente, sussiste il rischio che vengano esentati accordi in cui i rischi di collusione orizzontale non siano trascurabili.

Altro aspetto che potrebbe subire notevoli modifiche nella futura versione della VBER è quello delle restrizioni alle vendite attive, ovvero quegli accordi di cui all’art. 4 lettera c, VBER, volti a limitare il territorio in cui (o i clienti con cui) un rivenditore può operare. Ad oggi, mentre le restrizioni alle vendite passive sono proibite, quelle attive, in casi limitati ed a certe condizioni, possono rientrare nel campo di applicazione della VBER. Dalla Valutazione si evince tuttavia che le norme attuali risultano agli operatori di mercato particolarmente complesse, poco chiare ed impediscono ad essi di progettare sistemi di distribuzione adeguati alle mutate esigenze commerciali. Sembra dunque possibile una modifica che comporti l’estensione delle esenzioni a tutte o ad alcune categorie di restrizioni alle vendite attive, al fine di permettere maggiore flessibilità agli operatori nell’implementazione di sistemi di distribuzione maggiormente adatti ai relativi bisogni.

Con riferimento invece alle restrizioni alle vendite online, anch’esse finora escluse dall’applicazione della esenzione di cui alla VBER, è stato rilevato che molti grossisti e rivenditori operanti sia online, sia attraverso negozi fisici ritengano che, impedendo di fatto di differenziare i prezzi all'ingrosso in base ai costi di ogni canale, le regole attuali non consentano di incentivare gli investimenti, in particolare nei negozi fisici. In aggiunta poiché i canali di vendita online e offline sono intrinsecamente diversi tra loro, il “principio di equivalenza” previsto dalle attuali regole della concorrenza tra i due canali sia divenuto inadeguato. Alla luce di queste considerazioni, il legislatore europeo sta valutando se l’applicazione di condizioni diseguali tra il canale online e quello fisico debba continuare ad essere considerata come restrizione grave della concorrenza, o se sia invece opportuno considerarla lecita, subordinatamente alla definizione di determinate salvaguardie e garanzie, da definire in linea con la giurisprudenza della giurisprudenza eurounitaria.

Da ultimo la Valutazione considera anche le c.d. “clausole di parità tariffaria”, molto utilizzato in passato sulle piattaforme di prenotazione online. Tali clausole in genere impongono che un operatore di mercato offra alla sua parte contraente condizioni uguali o migliori di quelle offerte su qualsiasi altro canale di vendita. Se ad oggi tali clausole possono essere ritenute “coperte” dalla VBER, all’opposto la Valutazione ipotizza la possibilità di escludere tale protezione per le clausole che impediscono agli operatori di mercato di offrire condizioni migliori a quelle di specifici tipi di canali di vendita. In alternativa, si propone anche di eliminare l’esenzione per tutte le tipologie di clausole di parità, il che significa che ciascuna di esse dovrebbe essere valutata individualmente sulla base delle circostanze del caso concreto.

La pubblicazione della Valutazione è un altro passo verso le modifiche alla VBER, tematica che è da anni nell’agenda delle istituzioni europee. Non resta che attendere i prossimi step, che dovrebbero concretizzarsi nell’apertura di una consultazione pubblica a fine 2020 e nella successiva pubblicazione, nel 2021, di una prima bozza della revisione della VBER e degli Orientamenti da parte della Commissione.
Luca Casiraghi
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Diritto della concorrenza Italia/Abuso di posizione dominante e pubblicità online – L’AGCM avvia un’istruttoria nei confronti di Google per un presunto abuso di posizione dominante nel mercato italiano del display advertising

Il 28 ottobre scorso, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha annunciato di aver avviato un’istruttoria nei confronti delle società Alphabet Inc., Google LLC e Google Italy S.r.l. (nel seguito, Google) per un presunto abuso di posizione dominante consistente nel rifiuto di fornire ad altre società attive nel settore del digital advertising l’accesso ai dati sul comportamento di navigazione di alcuni utenti al fine dell’elaborazione delle campagne pubblicitarie di display advertising, ossia quelle realizzate mediante l’esposizione di contenuti pubblicitari sugli spazi online messi a disposizione da parte di editori e proprietari di siti web.

L’avvio dell’istruttoria trae origine da una segnalazione da parte di Interactive Advertising Bureau Italia (IAB), un’associazione di categoria di imprese attive in Italia nel settore del digital advertising. In particolare, IAB ha lamentato tre condotte poste in essere da Google:

(i) l’interruzione della fornitura delle chiavi di decriptazione dell’ID utente Google (ID decriptato). Prima di tale interruzione Google forniva l’accesso ai dati concernenti il comportamento di navigazione degli utenti all’interno del “Sistema Google” (l’insieme dei numerosi servizi erogati da Google). Ciò consentiva anche agli operatori di terzi di elaborare un profilo sufficientemente completo di ciascun utente, tale da consentire una pubblicità personalizzata efficace;

(ii) l’interruzione della possibilità per intermediari terzi di vendere spazi pubblicitari su YouTube;

(iii) l’interruzione della possibilità di includere dispositivi di tracciamento del comportamento online degli utenti (cookie, pixel di tracciamento) di operatori terzi su YouTube.

Al fine di valutare l’abuso di posizione dominante di Google, l’AGCM innanzitutto ritiene necessario analizzare non solo i diversi mercati della pubblicità on-line ma anche tutti quei mercati collegati che consentono a un operatore di raccogliere dati sui potenziali destinatari delle campagne pubblicitarie. Dalla disponibilità di dati, infatti, dipenderebbero caratteristiche fondamentali del servizio reso, in particolare la capacità di raggiungere target specifici di consumatori.

In primo luogo, l’AGCM ha osservato che la pubblicità online può essere suddivisa in (i) pubblicità search on-line (i.e. annunci pubblicitari che compaiono accanto ai risultati della ricerca svolta dall’utente mediante un motore di ricerca); e (ii) pubblicità non-search on-line (inserzioni grafiche che possono apparire su qualsiasi pagina web). L’AGCM ha poi ritenuto che, in virtù dell’eterogeneità della pubblicità on-line non-search in termini del canale utilizzato e di formato, si potessero individuare i più ristretti mercati del (i) classified advertising (i.e. pubblicità collocata in apposite rubriche dei quotidiani o sezioni/bacheche di siti web dedicate alla compravendita di specifici prodotti o servizi) (ii) e-mail advertising; (iii) social network advertising; (iv) e-commerce advertising; e, infine, il segmento/mercato qui in rilievo, ossia il (v) display advertising.

L’AGCM ha poi analizzato i servizi che compongono la filiera dell’intermediazione pubblicitaria on-line. In proposito, è utile specificare che, nell’ambito del display advertising, l’incontro fra domanda e offerta degli spazi pubblicitari avviene tramite software automatizzati che consentono la compravendita di spazi pubblicitari in tempo reale (c.d. programmatic advertising). In particolare, per procedere alla vendita di spazi pubblicitari, gli editori utilizzano le piattaforme tecnologiche di vendita (Supply Side Platform, SSP). Dal lato della domanda di spazi pubblicitari, gli inserzionisti si avvalgono di piattaforme tecnologiche di acquisto (Demand Side Platform, DSP). Le funzioni tecniche di erogazione della pubblicità sono svolte dagli ad server, che sono sistemi hardware e software dedicati alla gestione, erogazione e reportistica dell’online advertising, che operano sia come congiunzione tra lato editore/offerta di spazi pubblicitari (Publisher Ad Server), sia dal lato inserzionista/domanda di spazi pubblicitari (Advertiser Ad Server). In tale contesto, è emerso che Google deterrebbe quote superiori all’80-90% sia nella fornitura di servizi di ad server (su entrambi i lati), sia nell’erogazione di servizi di SSP e DSP.

Infine, l’AGCM si è soffermata sui mercati che consentono l’accesso a dati di profilazione, ovvero: (i) il mercato dei sistemi operativi per dispositivi mobili smart disponibili su licenza, in cui Google attraverso il sistema operativo Android avrebbe una posizione dominante; (ii) il mercato dei browser per la navigazione su Internet su pc, in cui Google avrebbe, tramite Google Chrome, una quota pari a circa il 70% del mercato; e (iii) il mercato dei browser per la navigazione su Internet su dispositivi mobili non dipendenti da specifici sistemi operativi (ovvero esclusi Safari per Apple iOS e il browser nativo di Blackberry). In tali mercati, dall’ambito geografico sovranazionale Google avrebbe una quota di mercato superiore al 61%. L’AGCM ha osservato, inoltre, che Google offre innumerevoli servizi agli utenti dai quali può acquisire dati, quali ad esempio Gmail, YouTube, Google Docs, Google Drive, Google Foto, Google Maps/Waze.

L’AGCM ha quindi ritenuto che Google detenga una posizione di dominanza nell’intera catena dell’intermediazione della pubblicità online, non soltanto in virtù delle elevate quote di mercato detenute in tali mercati ma anche sulla base di ulteriori elementi che discendono proprio dal modello di integrazione verticale e conglomerale di Google, il quale consente di combinare i dati sul comportamento di un soggetto acquisiti da una varietà di fonti. In questo modo, Google disporrebbe di un non eguagliabile capacità di accesso ai dati, il che determinerebbe elevate barriere all’ingresso tra cui effetti di rete, permettendo elevate economie di scala e di scopo oltre che rilevanti switching costs.

In merito alle condotte denunciate, l’AGCM ipotizza che Google abbia posto in essere una discriminazione interna ed esterna in quanto si sarebbe rifiutata di fornire le chiavi di decriptazione dell’ID Google e avrebbe escluso i pixel di tracciamento di terze parti, sostanzialmente impedendogli di accedere ai dati degli utenti generati nell’ambito del Sistema Google. Allo stesso tempo, avrebbe permesso alle proprie divisioni interne di utilizzare elementi traccianti che consentono di rendere i propri servizi di intermediazione pubblicitaria in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che alcuni concorrenti altrettanto efficienti non sarebbero in grado di replicare.

Tali condotte potrebbero avere un significativo impatto sulla concorrenza nei diversi mercati della filiera del digital advertising, con ricadute sui clienti e sui consumatori. L’assenza di concorrenza nell’intermediazione del digital advertising, infatti, potrebbe ridurre le risorse destinate ai produttori di siti web e agli editori, impoverendo così la qualità dei contenuti diretti ai clienti finali. Inoltre, l’assenza di una effettiva competizione basata sui meriti potrebbe scoraggiare l’innovazione tecnologica per lo sviluppo di tecnologie e tecniche pubblicitarie meno invasive per i consumatori.

Pochi giorni dopo l’offensiva da parte del Dipartimento di Giustizia americano, Google si ritrova quindi nuovamente nel mirino delle autorità antitrust. Il caso in esame riveste particolare interesse in quanto viene evidentemente valutata la possibilità che Google possa essere costretta a concedere i propri dati ai concorrenti.

Luigi Eduardo Bisogno
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Tutela del consumatore/Tutela del Consumatore e pubblicità occulta - Il Consiglio di Stato conferma la sentenza del Tar Lazio circa l’insussistenza di una pratica di pubblicità ingannevole in capo a Editoriale Domus S.p.A.

Con la sentenza n. 6476/2020 (la Sentenza), il Consiglio di Stato (CdS) ha confermato la sentenza del Tar Lazio n. 3917/2020 (la Sentenza Impugnata) con cui il Tar Lazio aveva accolto il ricorso della casa editrice della rivista cartacea mensile “Quattroruote vendo e compro”, Editoriale Domus S.p.A. (Editoriale Domus), contro il provvedimento con cui l’AGCM l’aveva sanzionata per aver posto in essere una condotta integrante gli estremi della pubblicità occulta.
Nella Sentenza, il CdS ha ritenuto come non fondati tutti e tre i motivi di appello dell’AGCM.

Con un primo motivo, l’AGCM aveva argomentato che la Sentenza Impugnata fosse da riformare in quanto il giudice in primo grado avrebbe svolto valutazioni di merito di esclusiva competenza dell’amministrazione. Tale motivo è stato rigettato in quando, secondo il CdS, il Tar Lazio non ha debordato dai limiti posti al sindacato giurisdizionale, allorché ha ritenuto che, alla luce dei fatti dedotti in giudizio, non fosse stata data la prova da parte dell’AGCM della sussistenza di una forma di pubblicità occulta.

Con un secondo motivo, l’AGCM aveva sollevato l’erroneità della Sentenza Impugnata nella parte in cui quest’ultima aveva ritenuto che non fosse stata dimostrata la condotta di pubblicità occulta. Nella visione dell’AGCM, infatti, nel provvedimento erano stati forniti una serie di indizi precisi, gravi e concordati (inter alia, l’enfasi del linguaggio utilizzato, contenente espressioni tipiche del linguaggio pubblicitario di impresa o la convergenza di contenuto tra quanto riportato nell’articolo e quanto riportato nel tabellare pubblicitario riguardante lo stesso prodotto o servizio) che erano senza dubbio da considerarsi rivelatori della pratica ingannevole. Nella sentenza il CdS, però, ha condiviso le valutazioni svolte in primo grado e ha ritenuto che gli elementi sopradescritti, considerati anche nella loro complessità, non siano sufficienti a dimostrare che vi fosse intenzione di fornire al lettore una pubblicità non dichiarata. In particolare, il CdS ha rilevato che rappresenta elemento determinante per escludere la pubblicità occulta il fatto che l’articolo era stato inserito in una rivista contenente il novanta per cento di informazioni di carattere pubblicitario. Ciò avrebbe implicato la consapevolezza del lettore medio circa la portata complessiva della rivista escludendosi, pertanto, che a seguito della lettura dell’articolo il consumatore abbia assunto una decisione commerciale che altrimenti lo stesso non avrebbe preso.

Con un terzo ed ultimo motivo, l’AGCM aveva sollevato la violazione del principio di eguaglianza per avere il primo giudice deciso diversamente in fattispecie analoghe alla quella del caso di specie. Anche in questo caso, il motivo è stato ritenuto non fondato in quanto, secondo il CdS, l’eventuale decisione difforme rispetto a precedenti casi non può costituire di per sé motivo di erroneità della Sentenza Impugnata.

La Sentenza appare interessante in relazione alle motivazioni secondo cui anche il CdS ha ritenuto non provata non la condotta di Editoriale Domus e costituisce un’importante precedente in materia di pubblicità occulta.

Mila Filomena Crispino
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