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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Aiuti di Stato e settore dell’acquacoltura e della pesca – La Corte di Giustizia esclude che alcune riduzioni fiscali sugli oneri sociali dei dipendenti possano costituire aiuto di Stato

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha stabilito lo scorso 17 settembre che una riduzione dei contributi sociali a carico di lavoratori dipendenti non costituisce un aiuto di Stato. La CGUE ha espresso tale principio in risposta una domanda pregiudiziale formulata dal Conseil d’État, la suprema corte amministrativa francese. Il giudice del rinvio, a sua volta, era stato adito per dirimere la questione del recupero da parte dello Stato francese di alcune somme che la Commissione europea (la Commissione) aveva ritenuto costituire aiuti di Stato, corrispondenti a una riduzione del 50% degli oneri sociali relativi al rapporto di lavoro dipendente di alcuni pescatori presso diverse imprese di pesca, tra cui la ricorrente Compagnie des Pêches de Saint-Malo (CPSM).

La questione è stata sollevata dinnanzi la CGUE perché, sebbene sia l’impresa ad essere responsabile per il versamento materiale dei contributi sociali in esame, essa lo è solo parzialmente a titolo proprio, operando anche a titolo di sostituto d’imposta per i dipendenti. Di conseguenza, la riduzione degli oneri ha generato un beneficio che è stato goduto sia dall’impresa, nella misura in cui sono risultate dimezzate le somme dovuto da quest’ultima direttamente, sia dai dipendenti stessi.

Con riferimento a questi ultimi, il risparmio fiscale risultante dalla riduzione degli oneri debiti è stato loro trasferito da CPSM nella forma di un aumento salariale netto; risultava pertanto controversa la possibilità di qualificare la porzione di risparmio fiscale attribuito – e, pacificamente, interamente trasferito – ai dipendenti di CPSM quale aiuto di Stato. Infatti, l’obbligo di versamento agli enti competenti delle somme corrispondenti ai contributi dei dipendenti non consente, di per sé, di concludere che la riduzione di tali contributi comporti un vantaggio per CPSM.

La CGUE ha stabilito che la Commissione abbia errato in diritto ritenendo che la riduzione degli oneri sociali in esame costituisse una misura che favorisse le imprese interessate, evidentemente ritenendo non rilevante l’indiretto vantaggio rappresentato dall’essere in grado di garantire uno stipendio netto maggiore ai propri dipendenti. Escludendo quindi il requisito del procurato vantaggio a un’impresa, indispensabile ai fini della qualificazione di una misura come aiuto di Stato, la CGUE ha dichiarato l’invalidità della decisione della Commissione nella misura in cui qualificava come aiuto di Stato la riduzione dei contributi dovuti dai dipendenti.

Riccardo Fadiga
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Tutela del consumatore / Pratiche commerciali scorrette e servizio di consegna della posta – L’AGCM irroga a Poste Italiane una sanzione pari a 5 milioni di euro per avere adottato una pratica commerciale ingannevole in relazione al recapito delle raccomandate

Nella sua adunanza dell’8 settembre 2020, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha irrogato a Poste Italiane S.p.A. (Poste) una sanzione di 5 milioni di euro, per aver adottato una pratica commerciale scorretta, consistente nella promozione ingannevole di alcune caratteristiche relative a certi servizi connessi al recapito delle raccomandate.

Più nello specifico, la pratica commerciale condannata dall’AGCM era stata realizzata da Poste mediante: a) la promozione di caratteristiche del servizio di recapito delle raccomandate che secondo l’AGC non trovano riscontro nel servizio effettivamente erogato; e b) la promozione del servizio di ‘ritiro digitale’ delle raccomandate (sul sito internet www.poste.it) tramite volantini e a mezzo stampa omettendo, tra l’altro, di indicare nei messaggi l’esistenza di limitazioni per la fruibilità del servizio.

In relazione alla condotta sub a), l’AGCM ha accertato che il tentativo di consegna delle raccomandate non veniva sempre effettuato con la tempistica e la certezza evidenziate nei messaggi pubblicitari, né veniva esperito (almeno il più delle volte) con modalità prescritte dalla legge. Infatti, le evidenze acquisite hanno dimostrato che Poste frequentemente utilizzava il deposito dell’avviso di giacenza della raccomandata nella cassetta postale anche quando sarebbe stato possibile consegnarla nelle mani del destinatario, in quanto presente nella propria abitazione (si pensi ad esempio alle persone portatrici di handicap o a quelle costrette in casa per l’emergenza sanitaria durante il lockdown).

In relazione alla condotta sub b), invece, l’AGCM ha accertato che i messaggi pubblicitari diffusi sul sito internet di Poste, tramite mail, volantini e post sui social network volti a promuovere il servizio di ritiro digitale delle raccomandate inducevano i consumatori a ritenere di poter ritirare online qualsiasi tipologia di raccomandata loro indirizzata senza limitazioni. In realtà, secondo quanto è emerso nelle risultanze istruttorie, il servizio di ritiro digitale delle raccomandate consentiva all’utente destinatario sottoscrittore del servizio considerato di ritirare online le raccomandate solamente a condizione dell’attivazione, da parte del mittente, della relativa funzionalità. Inoltre, come è emergerebbe dalla documentazione contrattuale, il servizio non era disponibile per invii non originati elettronicamente. Nonostante ciò, i messaggi pubblicitari volti a promuovere il servizio diffusi tramite il sito internet di Poste e tramite post su Facebook, a fronte dei suddetti claim, non contenevano indicazioni in merito all’esistenza di tali limitazioni, mentre le Direct Mailing, i flyer distribuiti dai portalettere presso le abitazioni e negli uffici postali e le locandine, riportavano le limitazioni in note poste in fondo alla pagina o sul retro dei volantini, con caratteri minuscoli o di piccole dimensioni.

In ragione della gravità, della frequenza e della durata (dal 2018 ad oggi) della pratica, la sanzione è stata irrogata nella misura massima. L’AGCM peraltro non manca di sottolineare come la medesima non risulti deterrente in rapporto al fatturato specifico generato da Poste, evidenziando che verosimilmente il risultato sarebbe stato diverso se fosse già stata recepita nell'ordinamento nazionale la Direttiva Europea 2019/2161 che fissa il massimo edittale della sanzione irrogabile al 4% del fatturato annuo.

Vari comunicati stampa hanno riportato che Poste sta presentando ricorso avverso tale decisione; resterà quindi da vedere se il TAR Lazio confermerà la decisione. La decisione inoltre sembra anche rappresentare un avvertimento alle imprese circa le modalità di sanzionare analoghe infrazioni in attesa del recepimento in Italia della ben più stringente normativa di derivazione comunitaria.

Mila Filomena Crispino
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PCS e diritti televisivi – Il TAR respinge il ricorso presentato da Sky per l’annullamento della decisione dell’AGCM che le aveva comminato una sanzione complessiva di 7 milioni di euro per aver posto in essere due distinte pratiche commerciali scorrette

Con la sentenza del 15 settembre scorso, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Tar) ha respinto il ricorso presentato da Sky Italia S.r.l. (Sky) contro la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) n. 27545 (la Decisione). Con tale provvedimento, l’AGCM aveva comminato a Sky una sanzione complessiva di 7 milioni di euro per aver posto in essere due distinte condotte integranti pratiche commerciali scorrette, commesse in relazione all’assegnazione dei diritti di trasmissione delle partite del campionato di calcio di serie A per il triennio 2018-2021. Il caso è stato anche oggetto di un procedimento parallelo avviato dalla Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCom), conclusosi lo scorso 8 maggio 2019 con l’imposizione di una sanzione pari 2,4 milioni di euro.

La Decisione era già stata presentata nella nostra Newsletter del 25 febbraio 2019. Le due pratiche scorrette ivi riscontrate consistevano: (i) nell’aver fornito informazioni ingannevoli ai potenziali nuovi clienti, nella fase di presentazione dell’offerta SKY Calcio per la stagione 2018/2019; e (ii) nel non aver permesso ai propri abbonati, nella fase di gestione di contratti già attivi SKY, a fronte del significativo ridimensionato dei contenuti del pacchetto SKY Calcio, di poter effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto. Secondo quanto rilevato dall’AGCM, Sky avrebbe infatti indotto i propri clienti, alternativamente, a rinnovare il contratto nell’erronea convinzione di poter fruire dei medesimi contenuti dell’anno precedente, con l’imposizione di addebiti dei costi mensili invariati, oppure a recedere dal contratto a titolo oneroso.

Sky aveva quindi impugnato la Decisione dinnanzi al TAR, deducendo quattro motivi: i primi due erano volti a dimostrare l’illegittimità delle conclusioni a cui era giunta l’AGCM in merito alla qualificazione delle condotte sub (i) e sub (ii). Il terzo e quarto motivo erano invece volti a chiedere l’annullamento o la riduzione della sanzione.

Relativamente al primo motivo, il TAR ha ritenuto priva di dimostrazione la (a dire il vero, creativa) argomentazione di Sky secondo cui il target dei propri messaggi pubblicitari, ossia il “consumatore tifoso”, sia un soggetto particolarmente appassionato di calcio e dunque sufficientemente informato da non prendere decisioni basandosi solo su claims e messaggi pubblicitari. A tal proposito, Il TAR ha ricordato che il concetto di consumatore rilevante ai fini dell’applicazione del Codice del Consumo è in ogni caso quello di “consumatore medio”. Analogamente, il TAR ha ritenuto infondata la censura secondo cui l’AGCM avrebbe dovuto valutare nel complesso le informazioni veicolate da Sky nella campagna pubblicitaria e non i singoli claims considerati ingannevoli. A riguardo, il giudice di primo grado ha richiamato la ratio da cui muovono le norme del Codice del Consumo, ossia la generale tutela del consumatore nei confronti di una comunicazione commerciale non corretta, sottolineando anche la “valenza moralizzante” delle medesime norme nei confronti degli operatori commerciali.

Con riferimento al secondo motivo, Sky ha invocato dapprima l’applicazione del principio del ne bis in idem, sostenendo che la condotta sub (ii) non sarebbe altro che un ulteriore risultato conseguente alla riduzione del pacchetto SKY Calcio, già sanzionata al punto sub (i). Il giudice ha ritenuto non condivisibile una simile prospettazione, poiché la condotta sub (i) non poteva avere alcun effetto persuasivo sui consumatori già abbonati, incisi dalla condotta sub (ii). In secondo luogo, Sky ha anche sostenuto che la condotta sub (ii) fosse da considerare omissiva piuttosto che aggressiva, in quanto consistente nel non aver consentito ai consumatori la riduzione del prezzo del servizio. Il TAR ha considerato infondata tale ricostruzione, dando rilievo al fatto che molti consumatori, dopo aver dato disdetta dell’abbonamento, fossero stati contattati da call center nel tentativo di indurli a rinnovare o confermare l’abbonamento, anche adducendo false rassicurazioni sul fatto che l’offerta sarebbe rimasta invariata. Nella valutazione del giudice una simile condotta non poteva essere considerata semplicemente omissiva.

Da ultimo, il TAR ha respinto anche gli altri motivi, considerando corrette le valutazioni compiute dall’AGCM in merito alla quantificazione delle sanzioni, ritenendole congrue e proporzionate, tenuto conto della durata e della gravità delle condotte poste in essere da Sky.

Luca Casiraghi
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Servizi di accesso a internet e diritti degli utenti – Secondo la Corte di Giustizia i pacchetti a “tariffa zero” a valere solo su alcune applicazioni violano il principio della neutralità della rete

Con la sentenza pubblicata il 15 settembre scorso, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) si è espressa sul rinvio pregiudiziale della Corte di Budapest vertente sulla compatibilità di alcuni pacchetti internet offerti da Telenor Magyarország Zrt. (Telenor) con l’art. 3 del Regolamento (UE) 2015/2120 (Reg. 2015/2120), il quale sancisce il principio del trattamento equo e non discriminatorio del traffico nella fornitura di servizi di accesso a internet e il diritto degli utenti finali di accedere a informazioni e contenuti elettronici e di diffonderli. Si tratta della prima volta che la CGUE viene chiamata ad interpretare tale Reg. 2015/2120.

La controversia trae origine dall’offerta da parte di Telenor di due pacchetti di accesso a internet, denominati, rispettivamente, “MyChat” e “MyMusic”. Questi prevedono che il traffico di dati generato da talune applicazioni specifiche (Facebook, Facebook Messenger, Instagram, Twitter, Viber e Whatsapp nel caso di “MyChat”, e Apple Music, Deezer, Spotify e Tidal per “MyMusic”) non venga computato nel consumo del volume di dati acquistato dal cliente (c.d. “tariffa zero”). Tali pacchetti prevedono, inoltre, che una volta esaurito il volume di dati, i clienti possano continuare a utilizzare le app summenzionate, mentre alle altre applicazioni e agli altri servizi siano applicate misure di blocco e di rallentamento del traffico.

L’Ufficio nazionale dei media e delle comunicazioni ungherese aveva riscontrato l’illegalità di tali pacchetti, in quanto incompatibili con l’obbligo di trattamento equo e non discriminatorio di cui all’articolo 3, del paragrafo 3, del regolamento (UE) 2015/2120. Adita con il ricorso proposti di Telenor, la Corte di Budapest-Capitale ha deciso di interpellare la CGUE in via pregiudiziale al fine di chiarire come debba essere interpretato il Reg, 2015/2012 (articolo 3, paragrafi 1 e 2, nonché l’articolo 3, paragrafo 3).

In particolare, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del citato Reg. 2015/2120, gli accordi conclusi tra i fornitori di servizi di accesso a internet e gli utenti finali, nonché le pratiche commerciali adottate da tali fornitori, non devono limitare l’esercizio dei diritti di accesso a internet degli utenti finali. Tali diritti comprendono, in particolare, quello di utilizzare contenuti, applicazioni e servizi tramite un servizio di accesso a internet nonché quello di fornire tali contenuti, applicazioni e servizi per questo tramite. D’altro canto, il paragrafo 3 del medesimo articolo prevede al suo primo comma che i fornitori di servizi di accesso a internet trattino tutto il traffico allo stesso modo, senza discriminazioni, restrizioni o interferenze. Peraltro, questa disposizione prevede che i fornitori di servizi di accesso a internet possano attuare misure di gestione ragionevole del traffico, purché tali misure siano (i) trasparenti, non discriminatorie e proporzionate; (ii) si basino non su considerazioni di ordine commerciale ma su requisiti di qualità tecnica del servizio; e infine (iii) non riguardino contenuti specifici e siano mantenute per il tempo strettamente necessario. Misure di gestione del traffico che vadano oltre sono giustificate solo se necessarie a conformarsi ad atti legislativi dell’Unione o alla normativa nazionale conforme al diritto dell’Unione ovvero al fine di preservare l’integrità e la sicurezza della rete o prevenire una sua congestione eccezionale.

In via preliminare, la CGUE ha chiarito che per “utenti finali” così comprendono sia i consumatori, sia le imprese. Inoltre, detta nozione include sia chi utilizza servizi di accesso a internet al fine di accedere a contenuti, applicazioni e servizi, sia chi si serve dell’accesso a internet per fornirli.

La CGUE ha quindi rilevato che un accordo mediante il quale un determinato cliente sottoscrive un pacchetto implicante che, una volta esaurito il volume di dati compresi nel piano tariffario acquistato, tale cliente disponga di un accesso senza restrizioni solo in relazione a talune applicazioni soggette a “tariffa zero”, comporta una limitazione all’esercizio dei diritti degli utenti finali.

In secondo luogo, la CGUE ha constatato che il blocco e il rallentamento del traffico connesso all’utilizzo di talune applicazioni non potessero essere considerate come misure di gestione ragionevole del traffico, dal momento che erano basate su considerazioni di ordine commerciale e non su requisiti di qualità tecnica del servizio. Inoltre, dette misure non rientravano in una delle tre eccezioni tassativamente elencate e sopra menzionate.

La CGUE ha quindi concluso che pacchetti come quelli sottoposti al controllo del giudice del rinvio sono, in via generale, tali da violare sia l’articolo 3, paragrafo 2, del Reg. 2015/2120, sia l’articolo 3, paragrafo 3.

La sentenza oggetto di commento riveste particolare interesse in quanto chiarisce che favorire parte del traffico per motivi commerciali lede i diritti degli utenti, siano essi consumatori, imprese o fornitori. A tal proposito, vale la pena ricordare che in Italia l’Agcom conduce una costante vigilanza sulle pratiche di zero rating e traffic management e ha già emesso alcune diffide in materia (si veda il caso WindTre, oggetto di commento nella Newsletter del 27 marzo 2017).

Luigi Eduardo Bisogno
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