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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Diritto della concorrenza e prescrizione – L’AG Pitruzzella apre alla disapplicazione di una norma nazionale sulla prescrizione quando questa ostacoli l’effettiva applicazione del diritto antitrust UE 

L’Avvocato Generale Pitruzzella (l’AG) ha presentato il 3 settembre 2020 le proprie conclusioni nel caso Consiliu Concurentei c. Whiteland Import Export SRL, avente ad oggetto un rinvio pregiudiziale da parte del Consiliu Concurentei, i.e. l’Autorità antitrust rumena (AAR), in materia di prescrizione.

La domanda posta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) sorge da un procedimento avviato nel 2009 dall’AAR per accertare l’esistenza di un’intesa verticale nel mercato dei prodotti alimentari al dettaglio. L’AAR aveva concluso l’indagine nel 2015 accertando l’esistenza di una intesa volta a limitare l’autonomia di prezzo delle parti, posta in essere da un rivenditore al dettaglio, Metro Cash & Carry Romania SRL (Metro) e alcuni suoi fornitori, tra i quali Whiteland Import Export SRL (Whiteland). Quest’ultimo aveva, quindi, proposto ricorso invocando l’intervenuta prescrizione del diritto dell’AAR di comminare una sanzione amministrativa: ciò in quanto, secondo l’interpretazione restrittiva della legge nazionale sulla prescrizione adottata dalla corte d’appello competente, la prescrizione sarebbe intervenuta nel 2014, ovverosia cinque anni dopo l’avvio del procedimento, che sarebbe l’ultimo atto dell’AAR idoneo ad interromperne il termine quinquennale.

Adita in proposito, la Curte de Casatia si Justitie, l’Alta Corte di cassazione e di giustizia della Romania, ha presentato alla CGUE una domanda di pronuncia pregiudiziale per accertare se il giudice nazionale possa disapplicare, perché contraria ai principii di leale collaborazione e di effettività dell’azione antitrust, la disciplina nazionale che prevede che l’ultimo atto interruttivo della prescrizione dell’azione di enforcement di un’Autorità nazionale di concorrenza sia l’atto formale di avvio dell’indagine relativa ad una pratica anticoncorrenziale, senza che le successive azioni intraprese ai fini di tale indagine rientrino tra gli atti interruttivi della prescrizione.

L’AG ha approcciato la questione procedendo dal bilanciamento tra il principio dell’autonomia procedurale nazionale e l’esigenza di uniforme applicazione del diritto comunitario, che vincola in particolare al principio di effettività la discrezionalità degli Stati membri. Ciò è vero soprattutto in un sistema decentrato come quello del diritto della concorrenza, nel quale le Autorità nazionali applicano direttamente il diritto dell’Unione. Con specifico riferimento al tema della prescrizione, l’AG richiama il recente caso Cogeco, commentato nella nostra Newsletter del 1 aprile 2019, in cui la Corte ha stabilito il principio secondo cui la norma nazionale che fissa i limiti di prescrizione “deve essere adattata alle specificità del diritto della concorrenza” che richiede di norma una complessa analisi fattuale ed economica, per poter affermare la possibilità che la norma nazionale che stabilisce un termine di prescrizione troppo breve possa rendere “l’esercizio del diritto a chiedere un risarcimento praticamente impossibile o eccessivamente difficile”, costituendo così un concreto ostacolo all’effettiva applicazione del diritto della concorrenza.

Non solo: l’AG analizza i potenziali effetti dell’intervento della prescrizione che causerebbe un pregiudizio rilevante soprattutto ai consumatori danneggiati dall’intesa anticoncorrenziale, che verrebbero privati dell’assistenza di una valida decisione dell’Autorità per instaurare eventuali azioni follow-on per ottenere il risarcimento del danno subito.

L’AG ha concluso suggerendo alla CGUE di rispondere in senso positivo alla domanda, confermando che – se le caratteristiche specifiche del caso lo richiedano, e in particolare se ciò sia coerente con la complessità del caso trattato – il giudice nazionale debba disapplicare la legge nazionale sulla prescrizione. Rimane – per il giudice nazionale – la necessità di verificare se l’eventuale disapplicazione della norma sulla prescrizione risulti contraria al principio di legalità. Nel caso, poiché ciò comprimerebbe i diritti di una parte assoggettata a una sanzione sostanzialmente penale (come quella antitrust), anche laddove la disapplicazione della norma sulla prescrizione porrebbe rimedio a una situazione nazionale incompatibile con il diritto eurounitario, il giudice non potrebbe che astenersi da tale disapplicazione.

L’opinione dell’AG non risolve ogni dubbio sulla questione, piuttosto apre la possibilità per il giudice nazionale di applicare o disapplicare la disciplina sulla prescrizione a seconda della propria valutazione dei fatti del caso. Risulterà interessante conoscere la posizione adottata dalla CGUE e, soprattutto, se affronterà quest’ultimo tema, che è cruciale sotto un profilo di certezza giuridica per le parti dei procedimenti.

Riccardo Fadiga
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Intese e immunità dalle sanzioni - L’AG Pitruzzella ha presentato le proprie conclusioni nell’ambito del caso del cartello nel settore del riciclo delle batterie usato per auto

In data 3 settembre 2020, l’Avvocato generale Giovanni Pitruzzella (AG) ha presentato le sue conclusioni in relazione alla causa C-563/19 (Recylex SA, Fonderie et Manufacture de Mètaux SA, Harz-Metall GmbH contro Commissione europea). Nel quadro di tale impugnazione, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) è stata chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione di una parte della comunicazione della Commissione relativa all’immunità dalle ammende o alla riduzione del loro importo nei casi di cartelli tra imprese del 2006 (la Comunicazione). Più nello specifico, la parte interessata della Comunicazione è quella dedicata all’immunità parziale dall’ammenda.

In primo luogo, è utile riassumere brevemente gli antecedenti della controversia. Con la decisione da cui è scaturito il contenzioso in esame, la Commissione aveva accertato che Recylex SA (la Ricorrente), e altre tre imprese, avevano partecipato, in violazione dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, ad un’infrazione unica e continuata nel settore dell’acquisto di rifiuti di batterie piombo-acido per autoveicoli utilizzati ai fini della produzione di piombo riciclato, commessa dal 2009 al 2012 e consistente in accordi e/o pratiche concordate aventi ad oggetto il coordinamento dei prezzi (il Cartello). Le indagini erano state avviate a seguito di una domanda di immunità dell’ammenda presentata da una delle altre imprese, diversa dalla Ricorrente, coinvolte nel Cartello. A seguito di ciò, anche la Ricorrente presenta la domanda di immunità o, in subordine, una domanda di riduzione dell’importo dell’ammenda.

All’esito del procedimento che ha accertato il Cartello, la Commissione ha accordato alla Ricorrente una riduzione dell’ammenda del 30% ai sensi della Comunicazione, ritenendo che fosse stata la seconda impresa (esclusa dal computo la domanda da parte della società che ha permesso di avviare il procedimento) ad aver fornito elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo ai fini della ricostruzione della base fattuale del Cartello e respingendo gli argomenti diretti ad ottenere una riduzione più importante dell’ammenda (dal 30% al 50%). Avendo il Tribunale dell’Unione europea (il Tribunale) confermato la decisione contestata, la Ricorrente ha presentato appello di fronte alla CdG.

Secondo l’AG, tutti i motivi dell’impugnazione avanzati dalla Ricorrente nell’impugnazione di fronte la CGUE debbono essere respinti, principalmente per due ragioni.

Il primo punto in questione riguarda la corretta interpretazione del criterio giuridico applicabile ai fini della concessione dell’immunità parziale (ossia, quello secondo cui «[a]l fine di poter beneficiare di un simile trattamento, un’impresa deve fornire alla Commissione elementi probatori della presunta infrazione che costituiscano un valore aggiunto significativo rispetto agli elementi probatori già in possesso della Commissione»). Secondo la Ricorrente, al riguardo non rileverebbe la circostanza che, al momento dell’introduzione della domanda di immunità parziale, la Commissione avesse già a sua disposizione informazioni sui fatti ai quali si riferiscono gli elementi di prova a fondamento di tale domanda bensì la circostanza secondo cui la Commissione fosse o meno già in grado di dimostrare adeguatamente, senza ricorrere a tali elementi di prova, la realtà di tali fatti. Secondo l’AG, invece, l’applicazione dell’immunità parziale deve essere limitata al solo caso in cui un’impresa che partecipa a un’intesa fornisce un’«informazione nuova» alla Commissione, vale a dire presenta elementi probatori che vertono su «fatti nuovi», «precedentemente ignorati dalla Commissione». Pertanto, qualora gli elementi prodotti dall’impresa non vertano su fatti precedentemente ignorati dalla Commissione, la domanda di immunità parziale deve essere respinta, indipendentemente da ogni valutazione del valore probatorio di tali elementi.

In secondo luogo, invece, la Ricorrente ha sostenuto che la prima impresa (dopo quella che ha ottenuto l’immunità) ad aver fornito elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo (ottenendo così il 50% di riduzione della sanzione) non avesse adempiuto al suo dovere di cooperazione continuativa con la Commissione necessario per ottenere il suddetto sconto e avrebbe dunque dovuto essere esclusa dal beneficio previsto dalla Comunicazione. Pertanto, a seguito di questa esclusione, la Ricorrente avrebbe dovuto subentrare a quest’ultima e beneficiare della riduzione massima di ammenda. Secondo l’AG, anche questo motivo dovrebbe essere respinto dal momento che la perdita del beneficio della riduzione dell’ammenda per il mancato rispetto del dovere di cooperazione non equivale a un giudizio di non soddisfazione del requisito sostanziale descritto nei paragrafi precedenti e non può dunque giocare a favore degli altri partecipanti al programma di clemenza della Commissione, la cui domanda è posteriore, rimettendo in discussione l’ordine cronologico di presentazione delle domande.

Bisogna ora attendere la sentenza della CGUE e vedere se quest’ultima concorderà con le suddette conclusioni dell’AG.

Mila Filomena Crispino
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Tutela del consumatore / PCS e prodotti terapeutici – L’Autorità sanziona Sapio Life per due distinte condotte illecite, ribadendo che può sussistere rapporto di consumo anche in assenza di un contratto diretto tra professionista e consumatore

Con la decisione pubblicata nel Bollettino del 3 agosto scorso, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha sanzionato per 240 mila euro la società Sapio Life S.r.l. (Sapio). Quest’ultima è attiva nella fornitura di varie tipologie di ausili terapeutici realizzati da diversi produttori, offrendo anche servizi post-vendita.

Dall’indagine dell’AGCM, avviata a seguito della segnalazione da parte di dell’associazione no profit Égalité, è emerso che Sapio avrebbe posto in essere due pratiche commerciali scorrette (PCS) nella fornitura di ausili alla mobilità per disabili, consistenti rispettivamente: (i) nell’omissione di un’adeguata informativa al consumatore circa l’esistenza e il contenuto della garanzia, nonché circa le modalità di esercizio della stessa; (ii) nella comunicazione nel proprio sito Internet di claim ingannevoli riguardo alla rapidità degli interventi di assistenza.

Nello specifico, tra le evidenze acquisite dall’AGCM, è emerso che Sapio non forniva sul proprio sito Internet alcuna informazione riguardante il regime di garanzia dei beni forniti, né tantomeno informava direttamente i consumatori al momento della consegna degli ausili. Sul sito era invece riportata un claim che assicurava ai consumatori che gli interventi di manutenzione e riparazione sarebbero avvenuti in tempi rapidi. Di diverso avviso erano però le testimonianze raccolte dall’associazione segnalante, che riportava alcuni episodi di assistenza post-vendita in cui Sapio aveva fatto attendere i pazienti per settimane o mesi prima di evadere le richieste di intervento e manutenzione sui dispositivi.

Di particolare interesse è il punto, preliminare alla difesa nel merito, sollevato da Sapio nelle proprie argomentazioni difensive, secondo cui non sarebbe applicabile la normativa consumeristica al caso in questione. In quest’ottica, la società non potrebbe essere qualificata come professionista ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 206 del 2005 (Codice del Consumo), in quanto non intratterrebbe alcun rapporto economico con i consumatori finali. Secondo Sapio, infatti, tra essa ed i fruitori degli ausili, non sorge alcun rapporto di consumo poiché la vendita dei dispositivi avviene formalmente nei confronti del Sistema Sanitario Regionale, che solo successivamente cede ai consumatori il dispositivo tramite un diverso ed ulteriore contratto.

L’AGCM non ha accolto tale visione, richiamando, tra vari altri argomenti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e del Consiglio di Stato, pronunciatasi sull’argomento nella sentenza C-357/16 del 20 luglio 2017, e del Consiglio di Stato, sentenza n. 4976 del 15 luglio 2019, ove viene precisato che la normativa sulle pratiche commerciali scorrette si applica a prescindere dall’esistenza di un rapporto contrattuale diretto tra professionista e consumatore.

Con riferimento alla pratica commerciale sub (i), l’AGCM ha ritenuto che l’omissione di una adeguata informativa circa l’esistenza e il contenuto della garanzia, nonché le procedure da seguire in caso di guasto di un ausilio, costituiscono una violazione di quanto disposto dall’articolo 20 del Codice del Consumo. Inoltre, l’omissione di tale informativa sul sito Internet costituisce una violazione anche dell’articolo 22 del Codice del Consumo, in quanto impedisce al consumatore di compiere una scelta consapevole sui canali di acquisizione dell’ausilio e preclude il pieno esercizio dei propri diritti.

Con riferimento alla pratica sub (ii) invece, l’AGCM ha sottolineato come la diligenza professionale attesa nell’assistenza ai pazienti disabili, per i quali gli ausili sono necessari per il compimento delle attività quotidiane, richiede un’organizzazione in grado di assicurare una rapida riparazione. Tuttavia, considerato che il claim era smentito dall’inadeguatezza del servizio di assistenza, soprattutto sotto il profilo delle tempistiche di risoluzione dei guasti degli ausili, l’AGCM ha ritenuto il claim suscettibile di ingannare il consumatore circa le reali caratteristiche del servizio di assistenza, in violazione dell’articolo 21 del Codice del Consumo.

L’AGCM, non accogliendo le osservazioni trasmesse da Sapio, ha perciò irrogato due distinte sanzioni: la prima pari a 200.000 euro per la pratica commerciale sub (i), la seconda pari a 40.000 euro per la pratica commerciale sub (ii), tenendo conto al contempo del ravvedimento operoso di Sapio che, nel corso del procedimento, aveva provveduto a fornire sul proprio sito delle informazioni più chiare riguardanti la garanzia operante sugli ausili; a predisporre dei flyer da consegnare ai consumatori contestualmente agli ausili, anch’essi contenenti informazioni sulla garanzia; nonché a rimuovere il claim dal proprio sito Internet.

Con tale decisione l’AGCM, oltre a confermare la propria attenzione in ambito di enforcement della normativa sulle PCS nel settore medico-farmaceutico, ribadisce come l’esistenza di un rapporto contrattuale diretto tra professionista e consumatore non sia un requisito necessario per l’applicazione della disciplina in esame.

Luca Casiraghi
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Legal news / Libertà di stabilimento e settore dei media – La Corte di Giustizia sancisce che la normativa italiana che ha impedito a Vivendi di acquisire il 28% del capitale di Mediaset è contraria al diritto UE

Con la sentenza pubblicata il 3 settembre scorso, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) si è pronunciata sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Tar) nell’ambito del ricorso da parte di Vivendi S.A. (Vivendi) avverso la delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) con cui era stato accertato che l’acquisizione da parte del gruppo francese del 28,8% del capitale sociale di Mediaset S.p.A. (Mediaset) integrasse una violazione dell’art. 43, comma 11, del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (TUSMAR).

La controversia è sorta nel dicembre 2016, quando in seguito ad alcuni contrasti emersi nell’ambito di un contratto di partnership strategica tra Vivendi, Mediaset e Reti Televisive Italiane SpA, il gruppo francese ha avviato una campagna di acquisizione ostile delle azioni di Mediaset. Vivendi è così giunta a detenere il 28,8% del capitale sociale di Mediaset e il 29,94% dei diritti di voto nell’assemblea degli azionisti di quest’ultima. Tale partecipazione minoritaria, tuttavia, non le consentiva di esercitare un controllo su Mediaset, la quale è rimasta sotto la guida del gruppo Fininvest.

Dal momento che al tempo Vivendi deteneva il controllo di fatto di Telecom Italia S.p.A. (TIM), Mediaset ha presentato una denuncia all’AGCOM, accusando Vivendi di aver violato l’articolo 43, comma 11, del TUSMAR. Tale norma, dispone che “… le imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche […] sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo ...”. Con la delibera del 18 aprile 2017, l’AGCOM ha accertato che Vivendi, per la sua partecipazione di controllo in TIM (integrante la citata soglia del 40% nel settore di quest’ultima) e quella di in Mediaset, avesse violato tali limiti, costringendo il gruppo francese a trasferire ad una società indipendente la proprietà del 19,19% delle azioni Mediaset (pari al 19,95% dei diritti di voto).

Vivendi ha impugnato la delibera dell’AGCOM dinanzi al Tar, il quale, a sua volta, si è rivolto alla CGUE al fine di verificare la compatibilità dell’art. 43, comma 11, del TUSMAR con i principi di diritto comunitario in merito alla libertà di circolazione dei capitali, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi.

Con la sentenza in esame, la CdG ha stabilito innanzitutto che la normativa nazionale, restringendo la libertà di Vivendi di stabilirsi in Italia e impedendole di influire maggiormente sulla gestione di Mediaset, rappresentasse un ostacolo alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE. A tale riguardo occorre ricordare che l’articolo 49 TFUE osta a qualsiasi provvedimento nazionale che, pur se applicabile senza discriminazioni in base alla nazionalità, possa ostacolare o scoraggiare una società dal creare in altri Stati membri entità subordinate, come un centro di attività stabile, nonché dall’esercitare le sue attività tramite tali entità.

La Corte ha poi riconosciuto che le restrizioni previste dalla normativa italiana potessero essere giustificate, in linea di principio, da un motivo di interesse generale, quale la tutela del pluralismo delle informazioni e dei media. Tuttavia, seguendo la linea già definita dall’Avvocato generale, la CGUE ha ritenuto che la disposizione non fosse conforme al principio di proporzionalità, ossia che non fosse idonea e necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo summenzionato. In particolare, la CGUE ha evidenziato che:

- il diritto dell'Unione europea, per quanto riguarda i servizi di comunicazione elettronica, stabilisce una chiara distinzione tra la produzione di contenuti, che implica un controllo editoriale, e la loro trasmissione, che esclude qualsiasi controllo editoriale. Pertanto, le imprese operanti nel settore delle comunicazioni elettroniche, che esercitano un controllo sulla trasmissione dei contenuti, non esercitano necessariamente un controllo sulla produzione di tali contenuti. La CGUE ha quindi censurato il fatto che la disposizione in questione non facesse riferimento ai collegamenti tra la produzione e la trasmissione dei contenuti e non fosse neppure formulata in modo da applicarsi specificamente in relazione a tali collegamenti;

- venga utilizzata una definizione restrittiva del settore delle comunicazioni elettroniche, circoscritto ai mercati suscettibili di regolamentazione ex ante, escludendo così mercati concorrenziali di importanza crescente per la trasmissione delle informazioni (ad esempio, il mercato dei servizi al dettaglio di telefonia mobile, i servizi di comunicazioni elettroniche collegati a Internet, nonché i servizi di radiodiffusione satellitare);

- il fatto di conseguire o meno ricavi equivalenti al 10% dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni (SIC) non è di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media, dal momento che il SIC comprende mercati diversi e vari. Ad esempio, nel caso in cui la soglia del 10% dei ricavi complessivi del SIC fosse raggiunta ma tale 10% di ricavi si ripartisse tra ciascuno dei mercati che compongono il SIC, il raggiungimento di tale soglia del 10% non costituirebbero necessariamente un pericolo per il pluralismo dei media;

- equiparare la situazione di una “società controllata” a quella di una exsocietà collegata”, nell’ambito del calcolo dei ricavi realizzati da un’impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche o nel SIC, può comportare che i ricavi siano presi in considerazione due volte e falsare in tal modo il calcolo dei ricavi realizzati nel SIC (ad esempio, i ricavi di una società attiva nel SIC potrebbero essere presi in considerazione sia per il calcolo dei ricavi di un suo azionista di minoranza, sia per i ricavi di un suo azionista di maggioranza). Inoltre, la nozione di società collegata si basa su una presunzione troppo ampia (l’esercizio di un quinto o di un decimo dei diritti di voto, a seconda che la società sia quotata o meno) che non consentono di dimostrare l’esercizio di un’influenza tale da pregiudicare il pluralismo dei media e dell’informazione.

Alla luce di quanto sopra, la CdG ha ritenuto che la disposizione non potesse essere considerata “… idonea a conseguire l’obiettivo da essa perseguito, giacché fissa soglie che, non consentendo di determinare se e in quale misura un’impresa sia effettivamente in grado di influire sul contenuto dei media, non presentano un nesso con il rischio che corre il pluralismo dei media”. Pertanto, la CdG ha concluso che l’art. 43, comma 11, del TUSMAR fosse incompatibile con l’articolo 49 TFUE.

Per concludere, la sentenza in esame riveste particolare interesse non soltanto per le parti in causa ma più in generale per il panorama normativo italiano del settore. Infatti, può ritenersi probabile, anche alla luce delle recenti dichiarazioni provenienti da alcuni esponenti del governo, e nonostante in passato (anche, in particolare, nel settore delle telecomunicazioni) il legislatore abbia conservato a lungo situazioni dichiarate difformi rispetto all’ordinamento comunitario, una revisione del TUSMAR.

Luigi Eduardo Bisogno
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Corte di Cassazione e sindacato giurisdizionale in materia antitrust –Dichiarato inammissibile un ricorso “per arretramento” in relazione al sindacato del Consiglio di Stato in materia antitrust

Con l’ordinanza n. 8093/2020, la Corte di Cassazione (a Sezioni Unite) ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato per difetto assoluto di giurisdizione (nella forma del c.d. “arretramento”) da parte della P & Figli Service S.r.l. (la Ricorrente).

L’Ordinanza pone fine ad un lungo iter procedimentale e giudiziario scaturito dal provvedimento n. 25488/2015 con il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva accertato una pratica concordata posta in essere in 24 procedure di gara indette da Trenitalia S.p.A. (avvenute tra il 2008 e il 2011) ad opera dei principali fornitori di beni e servizi elettromeccanici ad uso ferroviario. Tale illecito anticoncorrenziale (considerato di natura “molto grave”) era stato confermato dal giudice amministrativo in entrambi i gradi di giudizio.

La Ricorrente ha lamentato dinanzi alla Cassazione, in particolare, una mancata adeguata considerazione e disamina da parte del Consiglio di Stato (e, precedentemente, del giudice di prime cure) del ruolo marginale che la stessa avrebbe svolto nell’illecito concorrenziale, circostanza che non era stata riconosciuta dall’AGCM in sede di quantificazione della sanzione (pari a € 402.090).

La questione, quindi, ruotava intorno all’ampiezza del sindacato del giudice amministrativo (nel caso di specie, il Consiglio di Stato) con riferimento ad una fattispecie per cui è prevista ex lege (ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c) del codice del processo amministrativo) l’esercizio di una cognizione estesa al merito.

In relazione a ciò, la Ricorrente ha agito ex art. 111, comma 8, della Costituzione (previsione riprodotta sostanzialmente anche nell’art. 110 dello stesso codice del processo amministrativo, cosi come nell’art. 363 del codice di procedura civile), sostenendo che il Consiglio di Stato avesse in qualche modo negato (nei fatti) la propria giurisdizione, essendosi limitato (a proprio avviso) ad un sindacato di mera legittimità circa il provvedimento originario dell’AGCM, anziché esercitare il sindacato di merito ad esso spettante.

Con l’Ordinanza, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso in questione qualificandolo come unicamente volto a censurare “un cattivo esercizio da parte del Consiglio di Stato della propria giurisdizione”, e non propriamente attinente, dunque, a motivi inerenti alla giurisdizione per i quali può essere presentato questo tipo di ricorso ai sensi della normativa sopra richiamata. Se, da un lato, infatti, la Corte ha in parte condiviso la tesi della Ricorrente secondo cui la giurisdizione può dirsi effettiva solo attraverso l’esercizio di un sindacato esteso anche alla risoluzione delle eventuali contestazioni fattuali (nei casi in cui da esse dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo incidente su posizioni di diritto soggettivo e, dunque, meritevoli di piena tutela), dall’altro, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso (con liquidazione delle spese a favore dell’AGCM), dando evidenza di come il Consiglio di Stato avesse effettivamente esercitato in maniera completa (e non limitandosi solo ad uno scrutinio formale) la propria giurisdizione di merito.

La Cassazione conferma, dunque, un adagio giurisprudenziale consolidato su una questione che, in passato, è stata anche oggetto di un intervento da parte della Corte Costituzionale con la sentenza n. 6/2018.

Filippo Alberti
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AGCM, attività preistruttoria, comunicati stampa e reputazione delle imprese - Il Tribunale di Napoli Nord condanna l’AGCM a rettificare un proprio comunicato ritenuto lesivo della reputazione di una società

Con l’ordinanza adottata il 29 luglio 2020 (Ordinanza), il Tribunale di Napoli Nord (Tribunale) ha accolto parzialmente il ricorso cautelare presentato ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. dalla società CE.DI. Sigma Campania S.p.A. (CE.DI. o Ricorrente), con il quale quest’ultima chiedeva che l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) rettificasse un comunicato stampa (Comunicato) nel quale l’impresa era menzionata, ritenendo lo stesso lesivo della propria reputazione.

Il Comunicato, pubblicato sul sito dell’AGCM il 7 maggio 2020, dava conto dell’avvio di una preistruttoria volta ad indagare sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità, detergenti, disinfettanti e guanti nella GDO durante l’emergenza Coronavirus. Tali aumenti, riscontrati sulla base dei dati Istat del mese di marzo 2020, apparivano differenziati per provincia e più marcati in “aree non interessate da ‘zone rosse’ o da misure rafforzate di contenimento della mobilità”. L’AGCM chiariva nel Comunicato di non poter escludere che tali aumenti fossero dovuti a ‘fenomeni speculativi’. Al fine di indagare tale fenomeno, l’AGCM informava di aver inviato una pluralità di richieste di informazioni a numerosi operatori della GDO, indicando i nomi dei ‘principali destinatari delle richieste di informazioni’, tra i quali figurava anche quello della Ricorrente.

Il Tribunale ha anzitutto rigettato l’eccezione sollevata dall’AGCM che eccepiva la giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo che la pubblicazione del Comunicato non potesse in alcun modo essere espressione del pubblico potere e che, invece, tale condotta ricadesse nell’alveo dei ‘comportamenti meri’, non riconducibili all’esercizio di un potere autoritativo e dunque attratti nella giurisdizione del giudice ordinario.

Nel merito, il Tribunale ha poi chiarito che ad essere in discussione non era il diritto della P.A. (dell’AGCM in questo caso) di esprimere pareri e pubblicare segnalazioni concernenti circostanze idonee a causare distorsioni della concorrenza, bensì l’idoneità del Comunicato a ledere il diritto all’immagine e alla reputazione della Ricorrente. Ai fini di tale verifica, il Tribunale ha applicato i criteri che presiedono, secondo le indicazioni della giurisprudenza, a delimitare i confini dell’esercizio della libertà di informazione, ossia: verità, continenza e interesse pubblico all’informazione.

Nel caso di specie, secondo il Tribunale, né il criterio della continenza, né quello dell’interesse pubblico sussistevano con riguardo all’indicazione dei ‘principali destinatari delle richieste di informazioni’. Infatti, non risulta chiaro quale fosse l’interesse del pubblico a conoscere l’identità di alcuni (peraltro, non tutti) i soggetti destinatari delle richieste di informazioni in una fase di preistruttoria, considerando, in particolare, che tali richieste non erano finalizzate ad accertare violazioni già segnalate.

Inoltre - prosegue il Tribunale - l’aver affiancato nel testo del Comunicato i nomi di solo alcuni dei soggetti destinatari delle richieste di informazioni (tra cui la Ricorrente) alla notizia di possibili fenomeni speculativi sarebbe sufficiente ad ingenerare il convincimento o quantomeno il dubbio che (anche) CE.DI. abbia approfittato della situazione di emergenza legata al Coronavirus per incrementare in maniera ingiustificata i prezzi e, di conseguenza, i propri profitti.

Infine, il fatto che il Comunicato non contenesse alcun riferimento ad alcuni noti marchi della GDO indurrebbe il pubblico a ritenere che l’indagine dell’AGCM sia stata avviata nei confronti degli operatori per i quali erano già emersi indizi di pratiche speculative, circostanza, quest’ultima, che il Tribunale ritiene smentita dalle asserzioni della stessa AGCM.

Pertanto, il Tribunale ha concluso che, pur essendo “indubbio che il [Comunicato] appare corretto e legittimo nella parte in cui si limita ad informare sull’avvio dell’attività pre-istruttoria, condotta dall’Autorità per accertare l’esistenza di pratiche speculative […] al contrario l’accostamento della predetta notizia agli operatori commerciali ivi indicati – tra cui la ricorrente – […] appare immotivato e certamente idoneo a ledere l’immagine e la reputazione della ricorrente inducendo i consumatori – e non solo – a ritenere che a carico di [CE.DI.] siano già state accertate o, quantomeno segnalate, pratiche commerciali scorrette”.

Per queste ragioni il Tribunale ha condannato l’AGCM a pubblicare su almeno tre testate nazionali e in calce al proprio Comunicato un testo di rettifica del seguente tenore “in relazione al comunicato in oggetto si specifica che nei confronti di Ce. Di Sigma Campania s.p.a. e delle altre aziende indicate è stata effettuata una semplice richiesta di informazioni senza l’avvio di alcun procedimento istruttorio o sanzionatorio”.

L’Ordinanza in parola, se confermata ad esito dell’eventuale reclamo, costituirebbe un’assoluta novità nel panorama della tutela dei diritti d’immagine degli operatori interessati dall’azione dell’AGCM. Non resta che vedere ora se, in primo luogo, verrà confermata in sede di impugnazione e, in caso affermativo, se rimarrà un caso isolato ovvero costituirà l’inizio di una nuova frontiera di tutela, In ogni caso, è possibile che questa vicenda abbia comunque un impatto sulle scelte dell’AGCM in termini di pubblicazione di attività preistruttoria, o addirittura sulla scelta tra quest’ultima ed l’avvio di un procedimento amministrativo a fronte di situazioni dubbie e potenzialmente idonee ad essere risolte mediante strumenti non autoritativi.

Roberta Laghi
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