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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Aiuti di Stato e imposizione fiscale – L’esenzione fiscale concessa dal Lussemburgo a McDonald’s non costituisce un aiuto di Stato

L’esenzione per una parte dei profitti generati da MCDonalds’ da parte del Lussemburgo non costituisce un aiuto di Stato ai sensi della normativa europea, in quanto in linea con la normativa nazionale in materia fiscale e con le previsioni della convenzione Lussemburgo/USA sulla doppia imposizione. La circostanza che, di fatto, MCDonald’s non sia stato obbligato a pagare le imposte per tali profitti è dovuto ad una “divergenza” tra la normativa USA e quella lussemburghese in materia fiscale che non è rilevante ai fini della individuazione di un aiuto di Stato.

Lo ha stabilito la Commissione europea (Commissione), che lo scorso 19 settembre ha reso noto di aver concluso il procedimento volto ad accertare se la mancata tassazione dei profitti traferiti da McDonald’s Europe Franchising S.à.r.l. (McDEF), ossia la controllata del colosso americano McDonald’s Corporation che è titolare dei diritti di franchising del brand McD nel mercato europeo, ad una propria filiale statunitense costituisse un aiuto di Stato illegittimo.

L’indagine della Commissione si era originariamente concentrata su due esenzioni fiscali (ossia, tax rulings) concesse dalle autorità lussemburghesi nel 2009 a favore di McDEF, in forza delle quali quest’ultima non veniva tassata in Lussemburgo per le royalties che riscuoteva nel mercato europeo e che poi trasferiva prima ad una sua filiale svizzera e successivamente ad una controllata statunitense. Tali esenzioni erano state concesse dalle autorità lussemburghesi sulla base della convenzione Lussemburgo/USA sulla doppia imposizione, che esenta il reddito in una giurisdizione se tale reddito è imponibile nell’altra. Secondo quanto ricostruibile dal comunicato stampa della Commissione, tuttavia, la previsione della convenzione non richiederebbe che il reddito debba essere effettivamente tassato: l’attribuzione di tale reddito a una giurisdizione sarebbe sufficiente per evitare la doppia imposizione, avendo i due Stati la possibilità, ma non l’obbligo, di tassare effettivamente detto reddito.

Nel caso di specie, la società statunitense a cui McDEF trasferiva le proprie royalties non svolgeva alcuna attività reale e non era riconosciuta come soggetto imponibile negli USA, difettando il carattere di “stabile organizzazione” ai sensi del diritto statunitense. Le autorità lussemburghesi avevano tuttavia concesso l’esenzione fiscale a McDEF su tali profitti trasferiti alla filiale USA, in considerazione del fatto che quest’ultima poteva essere considerata una “stabile organizzazione” ai sensi del diritto nazionale del Lussemburgo e senza peraltro obbligare McDEF a fornire elementi di prova per dimostrare che detto reddito era effettivamente assoggettato a tassazione negli Stati Uniti (obbligo, questo, che era invero stato imposto con il primo tax ruling emesso il 30 marzo 2009 ma poi eliminato con il secondo tax ruling del 17 settembre 2009).

La Commissione ha quindi avviato un procedimento inteso valutare se l’esenzione così concessa a McDEF, anche in considerazione dei requisiti meno rigorosi applicati dalle autorità lussemburghesi con il secondo ruling, avesse conferito a McDEF un vantaggio selettivo che non sarebbe potuto risultare da una corretta applicazione della normativa nazionale e della convenzione Lussemburgo/USA sulla doppia imposizione. Procedimento, questo, che è stato infine concluso dalla Commissione riconoscendo che le autorità lussemburghesi hanno correttamente applicato le disposizioni sopra richiamate e che il vantaggio fiscale conferito a McDEF non può essere considerato di natura selettiva e, conseguentemente, un aiuto di Stato.

Tuttavia, il comunicato stampa della Commissione non si esaurisce con questa conclusione. Viene evidenziato come il fatto che i profitti generati da McDEF e trasferiti alla propria filiale statunitense non siano stati effettivamente tassati, né negli USA né in Lussemburgo, è dovuto ad una divergenza tra le disposizioni lussemburghesi e statunitensi in materia fiscale (in particolare, relativa alla nozione di “stabile organizzazione”), e non ad un trattamento “speciale” di favore concesso a McDEF.

Con una dichiarazione che qualcuno potrebbe considerare al limite dell’opportunità, la Commissaria per la concorrenza Margrethe Vestager ha al riguardo espresso il proprio disappunto, considerando il mancato pagamento da parte di McDEF delle tasse sui suddetti profitti un esempio di “iniquità fiscale”, che tuttavia la Commissione non può contrastare, non configurandosi un aiuto di Stato rispetto al quale intervenire. La stessa Vestager si è comunque dichiarata soddisfatta del piano di riforme che il Lussemburgo sta attuando in materia fiscale e che prevedono sia un restringimento delle condizioni per determinare l’esistenza di una “stabile organizzazione” ai sensi del diritto lussemburghese, sia l’inserimento di un obbligo per le imprese che richiedono l’esenzione fiscale sull’assunto di essere tassate in un’altra giurisdizione di fornire alle autorità lussemburghesi la conferma di essere effettivamente tassate in tale diverso Stato.

Martina Bischetti
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Aiuti di Stato e settore portuale – La Commissione europea ha concluso che l’Italia ha concesso aiuti di Stato incompatibili all’Autorità portuale di Napoli, stabilendo però che la riscossione tardiva dei canoni di concessione da parte della stessa Autorità non comporta misure di aiuto illecite

Con due distinte decisioni, la Commissione europea (Commissione) si è pronunciata sulla conformità alla normativa comunitaria sugli aiuti di Stato di due vicende riguardanti l’Autorità portuale di Napoli (l’Autorità).

La Commissione ha in primo luogo accertato che le sovvenzioni per 44 milioni di euro concesse dall’Italia all’Autorità per eseguire lavori di ripristino di alcuni bacini di carenaggio del porto di Napoli costituiscono aiuti illeciti, poiché concedono un indebito vantaggio all’Autorità nonché alla società affittuaria di tali bacini, la Cantieri del Mediterraneo (CAMED).  Risulta utile ripercorrere brevemente gli antefatti della vicenda. Nel Porto di Napoli vi sono, tra gli altri, tre bacini di carenaggio di proprietà dello Stato, utilizzati per attività di riparazione navale da CAMED, in forza di una concessione demaniale valida dal 1909 al 2008. Alla fine del secolo scorso, tuttavia, i bacini si trovavano in una situazione di sostanziale degrado. Per tal motivo, CAMED ha accettato di investire nell’area a condizione che l’Autorità effettuasse a sua volta investimenti strutturali nei bacini interessati, e nel 2001 CAMED ha richiesto, come contropartita dei lavori (per circa 24 milioni), che le venisse inoltre concesso un prolungamento della concessione. L’Autorità ha accettato, rilasciando a CAMED un nuovo atto di concessione trentennale senza effettuare una gara ad evidenza pubblica. Per effettuare gli investimenti strutturali promessi dall’Autorità, lo Stato italiano ha concesso a quest’ultima delle sovvenzioni per 44 milioni di euro, nella forma di aiuti finanziari non rimborsabili e privi di costi di finanziamento. La Commissione ha valutato che un tale strumento finanziario non sarebbe mai stato messo a disposizione dell’Autorità da parte di un investitore operante in un’economia di mercato. Di conseguenza, tale aiuto ha permesso all’Autorità, che agisce in qualità di gestore del porto in concorrenza con altri porti d’Italia e d’Europa – tra le altre cose –  nell’attirare imprese di riparazioni navali, di beneficiare di un vantaggio indebito di carattere selettivo.

Inoltre, la Commissione ha rilevato che anche la società CAMED ha beneficiato in maniera indebita di tali sovvenzioni. Infatti, grazie all’aiuto essa ha potuto riottenere la concessione senza dover sostenere una gara ad evidenza pubblica, aperta e trasparente. Inoltre, CAMED ha potuto beneficiare di un canone di concessione a prezzi più bassi di quelli di mercato, poiché l’Autorità, anche in forza dell’assenza di una procedura concorrenziale per l’affidamento, ha ricalcolato le tariffe in base a parametri che non rispecchiavano l’aumento del valore economico degli impianti ripristinati grazie agli investimenti pubblici. Secondo la Commissione, l’Autorità, non dovendo sostenere l’intero ammontare dei costi d’investimento come qualsiasi altro proprietario privato di infrastrutture simili, ha potuto applicare a CAMED dei canoni inferiori a quelli che avrebbe altrimenti richiesto.

La Commissione, dunque, ha concluso che l’aiuto concesso all’Autorità era incompatibile con le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato.

La seconda decisione viene a concludere il procedimento nel quale la Commissione ha esaminato se la riscossione tardiva dei canoni di concessione da parte dell’Autorità nei confronti di sette concessionari costituisse un aiuto di Stato. Per diversi motivi infatti, ivi incluse difficoltà economiche da parte dei concessionari, l’Autorità non aveva riscosso in tempo le tariffe. Tuttavia, la Commissione ha rilevato che l’Autorità si è comportata in maniera conforme a quella di un creditore privato diligente nell’ambito di una economia di mercato. Infatti, analizzando le modalità predisposte per il recupero di tali canoni, è emerso che l’Autorità non ha rinunciato a far valere i propri diritti nei confronti dei concessionari, avendo invece adottato numerose misure al fine di riscuotere i canoni, imponendo ad esempio il pagamento di interessi di mora e mettendo a punto piani di pagamento rateale comprensivi degli interessi, riservandosi di avviare procedure per l’annullamento dei contratti di concessione in caso di quantitativi significativi di canoni non pagati. Per quanto riguarda questa condotta, dunque, la Commissione ha stabilito che non vi erano gli estremi per la configurazione di aiuti di Stato.

Leonardo Stiz
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Tutela dei consumatori / Pratiche scorrette e numerazione a tariffa maggiorata - Per la Corte di Giustizia un consumatore non è mai tenuto a pagare più della tariffa base per contattare il professionista con cui ha già concluso un contratto

Con la sentenza dello scorso 13 settembre, nella causa C-322/17, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CdG) si è pronunciata in via pregiudiziale in merito alle modalità di contatto in fase post-contrattuale messe a disposizione dei consumatori da parte dei professionisti.

La vicenda trae origine dalla decisione dell’Ufficio estone per la tutela dei consumatori (Ufficio) di contestare a Starman As (Starman), società attiva nelle telecomunicazioni e servizi internet, la scelta di offrire ai propri clienti la possibilità di usufruire di un numero di assistenza a selezione rapida a tariffa maggiorata rispetto a quella base (per le chiamate da telefono cellulare), oltre ad un numero di rete fissa soggetto alla tariffazione ordinaria.

Ritenendo che tale condotta fosse lesiva del diritto estone che recepisce la normativa comunitaria in materia, l’Ufficio aveva, quindi, ingiunto la Starman a cessare tale comportamento, eliminando il numero a tariffazione maggiorata o facendo in modo che i costi supplementari derivanti dall’utilizzo di tale numero fossero interamente sopportati dallo stesso professionista.

Vale la pena ricordare, al riguardo, che l’art. 21 della direttiva 2011/83 sui diritti dei consumatori, attorno al quale ruota, essenzialmente, il quesito interpretativo formulato dal giudice del rinvio, dispone che “…gli Stati Membri garantiscono che, qualora il professionista utilizzi una linea telefonica allo scopo di essere contattato dal consumatore per telefono in merito al contratto concluso, il consumatore non sia tenuto a pagare più della tariffa di base quando contatta il professionista…”.

Nel caso di specie, il professionista, oltre a non trarre un diretto guadagno da tale supplemento tariffario, offriva effettivamente ai consumatori un’alternativa tra le due diverse tipologie di contatto. Peraltro, come osservato anche dal giudice del rinvio, il principio secondo il quale i costi aggiuntivi dovrebbero essere posti a carico del professionista, determinerebbe una celere scomparsa di tali opzioni di contatto rapido, che, in ultima analisi, rischierebbe di andare a nocumento degli stessi consumatori (i quali perderebbero comunque la possibilità di scegliere liberamente quale servizio utilizzare), andando anche oltre lo scopo prefisso dalla direttiva.

Tuttavia, proprio una parzialmente differente interpretazione degli obiettivi perseguiti dalla normativa applicabile in materia appare essere rilevante nella decisione in commento. Infatti, la CdG, riconoscendo l’impossibilità di addivenire ad una chiara interpretazione della summenzionata disposizione soltanto sulla base del suo tenore letterale, ha considerato il quadro di elevata tutela del consumatore in cui la norma appena richiamata (e, più nel complesso, la direttiva 2011/83) si inserisce.

Sulla base di questo ragionamento, la CdG ha, pertanto, concluso, che la normativa in parola osta a che un professionista addebiti ad un consumatore (divenuto suo cliente) una tariffa superiore a quella base, ancorché lo stesso consumatore sia pienamente consapevole dell’esistenza di un’altra modalità di contatto telefonica, a tariffazione ordinaria, messa a disposizione dal professionista. La CdG afferma, un po’ curiosamente, infatti, che “…da una lettura combinata degli articoli 21 e 25 della direttiva 2011/83 risulta che il consumatore non può volontariamente rinunciare ai diritti che gli sono conferiti dalla stessa direttiva e pagare più della tariffa di base quando contatta un professionista per telefono..”. Invero non si tratterebbe di una rinuncia quanto di una opzione aggiuntiva. Ma così si pronunciò la CdG.

Filippo Alberti