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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Antitrust e motori di ricerca online – La Commissione europea ha irrogato una sanzione di €4.34 miliardi a Google per condotte restrittive volte a rafforzare la posizione dominante del motore di ricerca di Google sui dispositivi mobili Android 

La Commissione europea (Commissione) ha irrogato a Google LLC (Google o la Società) la sanzione più alta mai imposta per una violazione delle norme sulla concorrenza, per un totale di 4.43 miliardi di euro, dopo che la medesima società era già stata colpita nel giugno 2017 da una sanzione in quel momento record di 2.42 miliardi, relativa al caso Google shopping. La Commissione ha ritenuto che Google abbia utilizzato il sistema operativo mobile Android, di sua proprietà, per consolidare, attraverso determinate condotte restrittive, la propria posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca online. Al momento la decisione della Commissione non è disponibile ma una sintesi della medesima è stata dalla stessa fornita mediante un insolitamente lungo comunicato stampa.

Come premessa, appare utile ricordare che ad oggi circa l’80% dei dispositivi mobili in Europa monta il sistema operativo Android, che è dunque il più diffuso a livello non solo europeo ma anche mondiale. Android è un sistema operativo c.d. open source, ossia un sistema il cui codice sorgente è mantenuto pubblico da Google, cosicché chiunque potrebbe in linea di principio scaricarlo e creare versioni diverse di Android in maniera gratuita. Tuttavia, la Commissione sottolinea che ciò che è reso pubblico è solo il codice relativo alle caratteristiche di base del sistema operativo mobile. Al contrario, i servizi e le applicazioni di proprietà di Google che devono essere installate sul sistema operativo al fine di rendere gli smartphone effettivamente funzionali, come i portali per scaricare le app e i motori di ricerca per navigare su internet, sono ottenibili solo stipulando un contratto con Google. Ed è proprio  nell’ambito di tale contratto che Google imponeva le restrizioni oggetto di esame della Commissione.

Più precisamente, Google Play Store è il portale di Google attraverso il quale gli utenti possono accedere alle applicazioni per smartphone Android, mentre Google Search è il motore di ricerca di Google e Google Chrome è la relativa applicazione di browsing, tramite la quale si accede alla ricerca stessa. Con riferimento ai mercati rilevanti, la Commissione ha sottolineato che Google detiene una posizione dominante su tutti i mercati considerati. Con riguardo al mercato dei servizi di ricerca generica su internet, la società sanzionata detiene quote superiori al 90% in tutto lo Spazio Economico Europeo. Inoltre, nel mercato dei sistemi operativi mobile che possono essere concessi in licenza (e, pertanto, con l’esclusione di Apple), Google possiede, con Android, quote superiori al 95%. Analogamente, con riferimento ai portali di vendita di applicazioni per tale sistema operativo, Play Store si posiziona su quote di mercato vicine al 100%.

Nei suoi rapporti con i produttori di smartphone, la Commissione ha accertato che se è vero che Google concede gratuitamente il suo sistema operativo Android, i servizi e le applicazioni aggiuntive di Google sono poi fornite dalla stessa nel quadro di un pacchetto dove sono inclusi il Play Store, Google Search e Google Chrome. Nel far ciò, secondo la Commissione, la Società ha posto in essere tre condotte restrittive volte a rafforzare il potere di mercato associato al proprio motore di ricerca sui dispositivi mobili ed eliminare così la potenziale concorrenza. In particolare, Google avrebbe:

(i) concesso ai produttori di smartphone la licenza per l’installazione del Play Store, giudicato imprescindibile per l’accesso alle app per Android, solo subordinatamente all’impegno di preinstallare, nei medesimi dispositivi, anche Google Search (dal 2011) e Google Chrome (dal 2012). Tale condotta legante, c.d. “tying”, è stata giudicata illecita perché garantiva la preinstallazione potenzialmente su ogni dispositivo Android del motore di ricerca e del browser di Google, determinando così una preferenza per lo status quo da parte degli utenti, che molto raramente cambiano le applicazioni di ricerca preinstallate. Ciò, naturalmente, andava a scapito della, peraltro limitata, concorrenza da parte di altri motori di ricerca compatibili con il sistema operativo (sui dispositivi Android con le applicazioni di Google preinstallate, infatti, oltre il 95% delle ricerche è fatto con Google Search);

(ii) concesso, dal 2011, incentivi finanziari significativi ad alcuni produttori nonché operatori di reti mobili, a condizione che installassero a titolo esclusivo Google Search sull’intera gamma di dispositivi  Android;

(iii)   impedito ai produttori di dispositivi di utilizzare versioni alternative di Android non approvate da Google (neutralizzando, per molti aspetti, la natura open source del sistema operativo) rifiutandosi, in caso contrario, di concedere l’installazione delle applicazioni e dei servizi di Google stesso. In tal modo, la Società ha impedito la circolazione di versioni di Android di altri grandi produttori, come per esempio Amazon, che potessero potenzialmente ospitare motori di ricerca rivali a quello di Google.

La Commissione, nell’analisi delle condotte in oggetto, ha rilevato come queste siano idonee a produrre importanti effetti anticoncorrenziali. Esse infatti rientrano in un’unica strategia volta a consolidare la posizione dominante di Google nel settore della ricerca generica su internet, soprattutto attraverso dispositivi mobili, sempre più utilizzati. Attraverso le condotte esaminate, la Società ha potuto utilizzare la piattaforma Android per negare agli altri motori di ricerca la possibilità di competere in base ai propri meriti, ostacolando inoltre lo sviluppo di versioni alternative del sistema operativo grazie alle quali i motori di ricerca concorrenti avrebbero potuto crescere. Un effetto collaterale di tali condotte, inoltre, sarebbe stato secondo la Commissione il fatto che Google si era così assicurata il controllo quasi per intero del flusso di dati personali raccolti dai dispositivi Android, rafforzando la propria posizione sul mercato della raccolta pubblicitaria e generando così ricavi estremamente elevati.

La Commissione ha dunque sanzionato la Società per €4.342.865.000, imponendole di terminare le condotte illegali entro 90 giorni dalla data della decisione. In caso di mancata ottemperanza, Google potrebbe dover pagare una penale fino al 5% del giro d’affari medio giornaliero di Alphabet, la società madre.

Google, naturalmente, ha già annunciato che farà ricorso contro la decisione.

Leonardo Stiz
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Intese e settore ittico – Il Tribunale dell’UE annulla in parte la decisione della Commissione europea che aveva sanzionato alcune società per aver fissato i prezzi e ripartito i volumi delle vendite di gamberi del Mare del Nord

Con la sentenza pubblicata lo scorso 13 luglio, il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) ha accolto in parte il ricorso presentato dalla Stuhrk Delikatessen Import Gmbh & Co. KG (Stuhrk) avverso la decisione della Commissione europea (Commissione) che nel 2013 l’aveva sanzionata, unitamente ad altre società attive nella distribuzione dei gamberi nel Mare del Nord, per aver partecipato ad un cartello consistente nella fissazione dei prezzi e la ripartizione dei volumi delle vendite di gamberi del Mare del Nord in Belgio, Francia, Germania e Olanda (la Decisione). Il Tribunale ha ritenuto che la Commissione fosse incorsa in un vizio di motivazione in punto di quantificazione della sanzione imposta a Stuhrk, annullando quindi su tale punto la Decisione.

Giova preliminarmente ricordare che la Commissione, nel quantificare la sanzione da imporre alle imprese al tempo indagate, aveva ritenuto che, stante la inevitabile riconduzione delle sanzioni al limite edittale del 10% del fatturato per tutte le imprese in quanto “monoprodotto”, ciò avrebbe di fatto comportato l’assenza di una qualsiasi differenziazione delle ammende, vuoi in funzione della diversa gravità ovvero delle specifiche circostanze attenuanti attribuite a ciascuna impresa. Per questo, in applicazione del punto 37 degli Orientamenti per il calcolo delle ammende (che prevedono la possibilità per la Commissione di derogare discrezionalmente ai criteri previsti dagli stessi orientamenti qualora lo richiedano le specificità di un determinato caso o la necessità di raggiungere un livello dissuasivo), la Commissione aveva ritenuto di ridurre la sanzione imposta  a Stuhrk del 75% mentre ad altre due imprese indagate la riduzione, sebbene sempre consistente, era stata “solamente” del 70% e dell’80%.

Stuhrk aveva quindi presentato ricorso dinanzi al Tribunale tentando di sostenere principalmente (i) l’assenza di un’infrazione (ii) la mancata dimostrazione da parte della Commissione della partecipazione della ricorrente all’asserita infrazione; (iii) l’esistenza di errori compiuti da parte della Commissione nel computo della sanzione imposta alla ricorrente, tra cui veniva anche censurata la percentuale di riduzione della sanzione discrezionalmente applicata dalla Commissione ai sensi del punto 37 degli Orientamenti.

Il Tribunale ha rigettato i motivi di ricorso di Stuhrk connessi alla prospettata assenza dell’asserita infrazione e del suo mancato coinvolgimento alle condotte sanzionate, mentre ha accolto la censura atta a sindacare la discrezionalità della Commissione nell’applicazione del punto 37 degli Orientamenti. In particolare, quanto al punto n. (i), il Tribunale – dopo aver ripercorso i consolidati principi giurisprudenziali in materia di onere della prova e valore probatorio degli elementi a disposizione della Commissione - ha ritenuto che la ricorrente non avesse dato dimostrazione dell’insufficienza delle prove utilizzate dalla Commissione nella propria decisione e della validità della ricostruzione “globale” da questa operata. In particolare, il Tribunale non ha ritenuto dimostrato che le informazioni sui prezzi che essa aveva ricevuto fossero ormai di dominio pubblico e che comunque non erano state prese in considerazione ai fini della propria politica di formazione dei prezzi. Quanto al punto n. (ii), il Tribunale ha rigettato le censure della ricorrente atte a circoscrivere la propria partecipazione all’asserita infrazione limitandola – eventualmente – ad un solo cliente (Aldi-Nord); nonché a ritenere che gli scambi di informazioni erano stati casi sporadici ed isolati. Sotto tale profilo, il Tribunale ha ritenuto che sussistesse una certa complementarietà tra gli episodi e le diverse condotte considerate e che la Commissione non avesse errato nell’individuare un disegno unitario ed un obiettivo comune alle imprese indagate.

Di contro, quanto alla censura sull’erronea applicazione da parte della Commissione del punto 37 degli Orientamenti, il Tribunale ha ritenuto che non risultasse sufficientemente chiaro dalla Decisione il collegamento tra l’impatto della partecipazione individuale all’infrazione e la percentuale di riduzione della sanzione concessa. Nella misura in cui l’applicazione del punto 37 degli Orientamenti non risponde ad un criterio puramente aritmetico, per il Tribunale alla Commissione si richiede un grado di precisione maggiore nella propria motivazione. Di contro, nel caso di specie, per il Tribunale non era possibile né alla ricorrente di contestare in maniera efficace il fondamento dell’approccio tenuto dalla Commissione sotto il profilo della parità di trattamento e neppure al Tribunale di esercitare pienamente il proprio controllo di legittimità. Pertanto, il Tribunale ha annullato sul punto la Decisione.

In conclusione, il Tribunale ha “bacchettato” la Commissione ricordando la necessità di una motivazione che rifletta l’esistenza di una approfondita analisi delle circostanze concrete e gli eventuali profili di differenza tali da giustificare l’applicazione di una modulazione della sanzione ai sensi della deroga concessa dal punto 37 degli Orientamenti.

Cecilia Carli
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Diritto della concorrenza Italia / Illeciti antitrust e appalti – Il TAR chiede l’intervento della Corte di Giustizia per risolvere la questione relativa alla possibilità di considerare un’infrazione antitrust come causa di esclusione di un operatore da una gara

Il giudice amministrativo è di recente tornato a pronunciarsi sull’annosa questione relativa alla possibilità di considerare l’illecito anticoncorrenziale come causa di esclusione di un operatore da una gara di appalto, invocando l’”aiuto” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CdG).

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (TAR) ha ora sollevato la questione alla CdG, chiedendo ai giudici europei di pronunciarsi in merito alla possibilità di considerare anche le violazioni del diritto della concorrenza, accertate dall’autorità antitrust con provvedimento confermato in sede giurisdizionale in via definitiva, alla stregua di un “errore grave” commesso da un operatore economico “nell’esercizio della propria attività professionale”, che, ai sensi dell’articolo 38 del previgente Codice degli Appalti (D.lgs. n. 163/2006, Codice degli Appalti), avrebbe legittimato l’esclusione di un operatore da un appalto.

La questione è stata sollevata dal TAR nell’ambito della controversia instaurata dal C.N.S. Consorzio Nazionale Servizi Società Cooperativa (C.N.S.), dichiarato decaduto dall’aggiudicazione di taluni lotti nell’ambito della gara indetta per l’affidamento del servizio di pulizia nel settore dei trasporti a seguito del provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), successivamente confermato in giudizio. Con tale provvedimento l’AGCM aveva sanzionato il C.N.S. per aver posto in essere un’intesa restrittiva in occasione di una diversa gara indetta da altra amministrazione. L’infrazione antitrust così accertata era stata infatti considerata dalla stazione appaltante alla stregua di un “errore professionale grave” ai sensi dell’articolo 38 del previgente Codice degli Appalti (ratione temporis applicabile), e, come tale, idonea a costituire causa di esclusione dell’operatore dalla gara in questione.

Tuttavia, nelle more del giudizio intervenivano due sentenze del Consiglio di Stato (CdS) con le quali i Supremi Giudici, annullando le precedenti pronunce rese dal TAR in una materia analoga, escludevano la possibilità di ricondurre l’infrazione antitrust nell’alveo delle cause di esclusione di cui alla disposizione in commento. E ciò, in quanto gli “…errori professionali gravi…”, secondo la alquanto sorprendente presa di posizione del CdS, dovrebbero ricomprendere “…solo inadempimenti e condotte negligenti commessi nell’esecuzione di un contratto pubblico…”, e non anche, come nel caso di illeciti antitrust, “…i fatti, anche illeciti, occorsi nella prodromica procedura di affidamento…” (si pensi ad esempio ad un cartello finalizzato proprio ad eliminare il confronto concorrenziale in occasione di una gara, c.d. bid rigging).

Il TAR, tuttavia, non è sembrato essere d’accordo con l’interpretazione fornita dal CdS, e ha quindi deciso di rimettere la questione direttamente alla CdG, sottolineando l’asserito contrasto di tale orientamento giurisprudenziale con le direttive europee (in particolare, Direttiva 2004/17/CE e Direttiva 2004/18/CE), che, invece, non sembrerebbero lasciare alcun margine di libertà agli Stati membri in merito alla scelta di quali fattispecie indicare come cause di esclusione di un operatore da una gara, rimettendo, al contrario, alla discrezionalità dell’amministrazione appaltante la decisione ultima sul se e come valutare determinate condotte, tra cui le infrazioni antitrust, ai fini dell’esclusione dell’operatore. In altre parole, secondo il TAR, la natura facoltativa delle “cause” di esclusione previste dalla normativa europea non legittimerebbe la libertà degli Stati membri di decidere se prevederle o meno, ma, semmai, la discrezionalità delle stazioni appaltanti in merito alla loro eventuale applicazione nel caso concreto.

E tra tali cause di esclusione il TAR ha ricompreso altresì le infrazioni antitrust che, sebbene non espressamente previste nella previgente normativa nazionale e europea in materia di appalti, sono invece indicate dalla nuova Direttiva 2014/24/UE (Direttiva Appalti, implementata in Italia con D.lgs. 50/2016 recante il nuovo Codice Appalti), alla quale il TAR ha riconosciuto valore ricognitivo di principi già affermati a livello europeo e, quindi, già applicabili nel vigore della precedente normativa. Sul punto il TAR ha citato una sentenza della stessa CdG (commentata in questa Newsletter) che aveva già riconosciuto la possibilità di considerare l’illecito antitrust alla stregua di un “errore professionale grave” che legittimerebbe, ai sensi della normativa previgente, l’esclusione dell’operatore dalla gara, citando a sostegno di tale conclusione anche la nuova Direttiva Appalti.

La “palla” passa ora alla CdG, la quale auspicabilmente fornirà degli importanti chiarimenti su una questione tanto dibattuta, che nemmeno il nuovo Codice degli Appalti è stato in grado di risolvere. Si pensi alla recente pronuncia del TAR Salerno (commentata in questa Newsletter) che, in applicazione del nuovo Codice degli Appalti, ha escluso la possibilità di considerare l’illecito antitrust come causa di esclusione automatica dell’operatore dalla gara, in considerazione della scelta – invero non del tutto chiara – del nostro legislatore di non riprodurre fedelmente il testo della Direttiva Appalti del 2014.

In attesa di tali importanti chiarimenti interpretativi, che sicuramente riguarderanno anche la normativa attualmente in vigore, si ricorda alle imprese la possibilità di ridurre i rischi di esclusione dalle gare mediante l’implementazione di misure di c.d. “self-cleaning” idonee a rimuovere i profili illeciti delle proprie condotte e che, tuttavia, alla luce dell’interpretazione per il momento fornita nell’ambito della controversia in commento, dovrebbero essere avviate prima dell’inizio della gara a cui l’impresa intende partecipare.

Martina Bischetti