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Newsletter

Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza Italia / Intese e bid rigging – Cresce l’attenzione AGCM sulle gare d’appalto: finiscono nell’occhio del ciclone le imprese partecipanti alla gara europea per la prestazione di servizi di gestione integrata salute-sicurezza sui luoghi di lavoro

Con provvedimento pubblicato lo scorso 22 marzo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha reso noto di aver aperto un procedimento nei confronti delle società Com Metodi S.p.A., Deloitte Consulting S.r.l., Sintesi S.p.A., Adecco Formazione S.r.l., Archè S.c.a.r.l., CSA Team S.r.l., Nier Ingegneria S.p.A., Projit S.r.l., Igeam S.r.l., Igeamed S.r.l., Igeam Academy S.r.l., STI S.p.A., Exitone S.p.A. e Informa S.r.l. per accertare l’esistenza di violazioni dell’articolo 101 del TFUE in relazione alla gara europea a procedura aperta per la prestazione di servizi relativi alla gestione integrata della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro presso le PA.

Tutto è iniziato da una iniziativa della Consip, stazione appaltante, che ha segnalato all’AGCM possibili indizi di condotte anticoncorrenziali consistenti in comportamenti coordinati nella presentazione delle offerte economiche delle società coinvolte, tali da dar luogo ad una spartizione del mercato.

In particolare, la gara in questione ha ad oggetto 9 lotti, la cui assegnazione avviene sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, attribuendo un punteggio massimo di 60 punti all’offerta tecnica e di 40 punti all’offerta economica. Il meccanismo di assegnazione avviene inoltre seguendo una formula per cui quando il ribasso medio dell’offerta economica si riduce, formulare un ribasso più aggressivo del proprio concorrente diventerebbe via via meno determinante ai fini dell’aggiudicazione del lotto. Così, in presenza di una media contenuta dei ribassi presentati in gara, un’impresa che concorra alla aggiudicazione del lotto forte di un elevato punteggio tecnico potrebbe risultare avvantaggiata rispetto a rivali che puntino invece maggiormente sulla aggressività delle offerte economiche.

Ciò detto, nella ricostruzione preliminare dell’AGCM le imprese coinvolte avrebbero posto in essere una o più intese restrittive della concorrenza volte alla ripartizione dei lotti posti a gara. In particolare, avrebbero presentato offerte maggiormente competitive – in termini economici - solo su alcuni dei lotti e tali “migliori offerte” non si sarebbero sovrapposte. Nell’ottica dell’AGCM – secondo una motivazione molto concisa - le anomalie riscontrate nelle scelte partecipative dei soggetti coinvolti sarebbero spiegabili solo in un contesto collusivo per il solo fatto che, stante l’omogeneità dei lotti e la limitata rilevanza dell’aspetto territoriale/geografico, la differenziazione delle offerte economiche formulate da ciascun operatore appare spiegabile nell’ottica del disegno spartitorio volto a concordare i lotti di rispettivo interesse. Peraltro, da quanto emerge dal provvedimento di apertura, l’AGCM non esclude che l’ipotizzata strategia spartitoria sia “esemplificativa di dinamiche collusive tra le parti del procedimento poste in essere in occasione anche di altre gare pubbliche”.

Il procedimento in commento è un ulteriore tassello a conferma del crescente interesse dell’AGCM rispetto alle gare d’appalto. Il primo passo era stato sancito dal Vademecum alle stazioni appaltanti del 2013, cui ha fatto seguito il protocollo d’intesa AGCM ENAC del 2014, entrambi strumenti che hanno stimolato l’attività dell’AGCM nel settore. Negli ultimi anni l’AGCM si è infatti dimostrata una delle autorità nazionali più attive in punto di bid-rigging. Non resta dunque che vedere quale sarà l’epilogo del procedimento in commento che, salvo proroghe, dovrà concludersi entro il 30 giugno 2019.

Cecilia Carli
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Scambi di informazioni e associazioni di categoria – Il Consiglio di Stato annulla la sentenza del TAR nel caso dell’intesa nel settore dei servizi di post-produzione RAI

Con la sentenza pubblicata il 21 marzo scorso, il Consiglio di Stato (CdS) ha accolto il ricorso dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) avverso la sentenza del TAR che aveva annullato la decisione con cui l’AGCM aveva accertato l’esistenza di un’intesa nel settore dei servizi di post-produzione RAI. Con la sentenza in commento, il CdS ha rigettato le (discusse) conclusioni del TAR, che aveva escluso che lo scambio di informazioni tra le imprese coinvolte, avvenuto tramite anche l’associazione di categoria NIBA, potesse costituire un’intesa concorrenziale, in quanto, da un lato, le informazioni erano state ritenute inidonee ad influenzare il comportamento delle imprese nelle gare future (e quindi a produrre l’effetto restrittivo della concorrenza ipotizzato dall’AGCM) e, dall’altro, aveva sostenuto che le evidenze probatorie individuate dall’AGCM non fossero sufficienti a provare l’intesa (si veda sul punto la Newsletter del 13 giugno 2016).

A differenza di quanto prospettato dal TAR, il CdS ha riconosciuto, sposando totalmente la posizione dell’AGCM, che vi sia stato un coordinamento delle offerte economiche formulate in occasione delle gare indette dalla RAI tra luglio-ottobre 2013 che aveva portato ad un innalzamento del livello dei prezzi offerti (fino al luglio 2013, lo sconto medio era pari quasi al 40%, mentre nel periodo contestato lo sconto della migliore offerta era in media pari al 6.8%). Inoltre, il CdS ha riconosciuto l’esistenza di ulteriori elementi che, “…unitamente considerati, contribuiscono a corroborare la tesi dell’Autorità…”. In particolare, tra gli altri, vengono citate una serie di lettere anonime inviate alla RAI che anticipavano il vincitore e il prezzo praticato, l’organizzazione di due riunioni (nello stesso periodo incriminato) aventi ad oggetto la discussione dei prezzi da praticare con la RAI, la confessione di una delle società coinvolte. Secondo il CdS, tali elementi “…paiono di per sé sufficienti a dimostrare la collusione tra le imprese…”.

Inoltre, il CdS ha ritenuto, a differenza del TAR, che l’AGCM avesse anche provato che l’effettivo aumento dei prezzi di aggiudicazione fosse dovuto alla condotta illecita delle società. Ciò essenzialmente per la compresenza di due dati “oggettivi e incontestabili”: i) l’entità dell’aumento del prezzo di aggiudicazione; ii) la tempistica dell’incremento (e del successivo annullamento, proprio in concomitanza con l’avvio del procedimento dell’AGCM). Pertanto, secondo il CdS, l’esistenza di un’intesa restrittiva sarebbe provata sia dalla presenza di elementi esogeni (tra cui, in particolare, l’effettiva alterazione del mercato di riferimento) sia di elementi endogeni (ossia l’assenza di spiegazioni alterative plausibili da parte delle imprese).

In ogni caso, il CdS ha aggiunto che, “a prescindere dall’effettiva alterazione del mercato…” l’AGCM ha messo in luce l’illeceità dello scambio di informazioni sin dalla costituzione di NIBA, e il ruolo svolto da quest’ultima, “…in quanto da considerarsi di per sé illecito, indipendentemente dai concreti effetti che abbia prodotto”.

Il CdS ha riconosciuto che l’associazione NIBA aveva concorso alla realizzazione dell’intesa tramite la condivisione di informazioni sensibili fra i suoi associati e la divulgazione di indicazioni relative ai prezzi minimi cui le diverse imprese dovevano attenersi nel formulare le offerte per i servizi di post-produzione.

In primo grado, il TAR aveva affermato che l’attività di raccolta dati effettuata da NIBA “ben pote[va] avere una spiegazione che la ricondurrebbe ad una finalità di per sé legittima, quale quella di indurre la RAI ad adottare meccanismi di selezione competitiva che prevedessero dei correttivi al sistema del massimo ribasso…”. Inoltre, il TAR aveva ritenuto che le informazioni scambiate, poiché erano essenzialmente relative ai prezzi di aggiudicazione delle singole gare già svolte, erano da considerarsi “dati storici” e quindi “…inidonei a rivelare le future intenzioni commerciali dei partecipanti alle future gare…”.

Con la sentenza in commento, il CdS ha innanzitutto ricordato che la natura strategica delle informazioni scambiate viene desunta da una pluralità di fattori (aggregazione, età dei dati, frequenza dello scambio, costo di accesso) “…non richiedendosi necessariamente che i dati siano prospettici…”. Il CdS ha quindi riconosciuto che attraverso NIBA fosse stata posta in essere  una “…capillare attività di monitoraggio sui dati relative alle gare per l’affidamento dei servizi di post-produzione…”. In merito alla storicità del dato, il CdS ha altresì ricordato che “…anche un dato storico può fungere da indicazione di prezzo futuro, laddove accompagnato dall’invito a non discostarsi dallo stesso, o comunque dall’invito a tenerne conto nelle transazioni future…”. Inoltre, nel caso di specie, si trattava di dati relativi a transazioni comunque recenti, in grado di disvelare l’attuale comportamento di prezzo dei concorrenti. Infine, il CdS ha considerato che il contesto nel quale si colloca la diffusione di tali dati “…mira chiaramente ad evitare una rincorsa al ribasso dei prezzi, in tal modo orientando (in modo esplicito, come si evince dal materiale probatorio di seguito esaminato) il comportamento di prezzo di ciascun operatore…”.

Il CdS ha citato altresì puntualmente una serie di evidenze documentali nelle quali, tramite un linguaggio totalmente incauto (dal punto di vista della compliance antitrust), veniva esplicitamente riconosciuto che, ad esempio, “…lo scopo dell’associazione fosse quello di cercare di far rialzare i prezzi di aggiudicazione delle commesse Rai…” oppure che il fine della stessa fosse quello di “…coordinare eventuali accordi diretti tra associati per concordare anticipatamente le aggiudicazioni delle gare d’appalto…”.

Da ultimo, il CdS ha riconosciuto che non rileva in alcuno modo che le sollecitazioni di NIBA alle singole imprese si inserissero in un’attività finalizzare a sensibilizzare la RAI sulla sofferenza del settore, in quanto, come è noto,  ciò che rileva a fini antitrust è “…la portata anticoncorrenziale di una serie di atti, anche, in tesi, in sé legittimi…”.

Con la sentenza in commento, il CdS sembra quindi aver riportato la valutazione dello scambio di informazioni a fini antitrust entro binari più “classici”, abbandonando così le discusse conclusioni del TAR in primo grado.

Jacopo Pelucchi
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Sanzioni antitrust e cartelli – No definitivo del Consiglio di Stato alla modulazione dell’importo sanzionatorio per le imprese monoprodotto, ma l’AGCM può discrezionalmente ridurre la sanzione sulla base di un’approfondita analisi delle circostanze relative all’impresa

Con sentenza pubblicata lo scorso 21 marzo, il Consiglio di Stato (CdS) ha posto la parola fine all’annosa vicenda relativa alle contestazioni mosse dalla società Olmo avverso la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) di sanzionarla per un’intesa restrittiva posta in essere nel mercato del poliuretano espanso, comminando ad Olmo una sanzione di oltre 7 milioni di euro e applicando invece all’altro cartellista, Orsa Foam, una riduzione della sanzione del 75%.

Il CdS ha difatti respinto integralmente l’appello proposto da Olmo avverso la sentenza con la quale il TAR Lazio (TAR) aveva a sua volta confermato le valutazioni condotte dall’AGCM sia in merito all’accertamento dell’infrazione, sia con riguardo al calcolo delle sanzioni comminate a Olmo e Orsa Foam (si veda la Newsletter del 7 marzo 2016).

Sotto il profilo dell’accertamento dell’intesa anticoncorrenziale, consistente in un intenso scambio di informazioni sensibili tra Olmo e Orsa, realizzato tramite le imprese comuni dalle stesse detenute e mediante un accordo di cessione della clientela a favore di una di tali imprese, nonché in un esplicito accordo per la gestione congiunta della propria clientela da parte delle due società, allo scopo di concertare le proprie politiche commerciali e di cristallizare la reciproca clientela, il CdS, confermando il TAR, ha sottolineato come l’AGCM avesse correttamente valutato e provato l’esistenza di tale illecito antitrust, mediante “…un’adeguata istruttoria e (…) un complesso probatorio non frequente in ambito antitrust…”. Sul punto il CdS ha infatti precisato che in materia antitrust, “…considerata la rarità dell’acquisizione della prova piena (…) si ritiene sufficiente e necessaria (…) l’emersione di indizi, purché seri, precisi e concordanti, circa l’intervento di forme illecite di concertazione e di coordinamento…”, e che tuttavia “…la fattispecie in esame appare caratterizzata da una peculiare evidenza della prova, avente natura documentale e tale da poter qualificare alcuni elementi (…) in termini di “pistola fumante” [ossia di prova piena dell’intesa] a fronte dell’emergenza di specifici accordi, comprensivi di diretti scambi di informazioni e di comunicazioni riguardanti la clientela tali da evidenziare l’accordo di spartizione, come ad esempio emerge dall’espressa rinuncia a formulare proposte di vendita ai clienti in quanto assegnatari dell’impresa concorrente…”.

Con riguardo al calcolo della sanzione, parimenti a quanto già deciso dal TAR in primo grado, il CdS ha respinto l’argomentazione di Olmo relativa ad un asserito contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità dell’applicazione automatica alle imprese monoprodotto di una sanzione antitrust pari al 10% del loro fatturato (posto che tale 10% rappresenta il limite massimo dell’importo della sanzione antitrust, a sua volta calcolata su di una percentuale dei ricavi ottenuti dalla vendita dei prodotti e/o servizi oggetto dell’infrazione; percentuale che, nel caso di intese orizzontali segrete, come quella nel caso di specie, è di regola non inferiore al 15%). Tale circostanza, secondo Olmo, avrebbe comportato per le imprese monoprodotto un’illegittima discriminazione rispetto al trattamento sanzionatorio riservato alle imprese multiprodotto, posto che solo per le prime l’applicazione del minimo edittale del 15% implica l’applicazione sempre del massimo edittale del 10%. Sul punto, il CdS ha infatti affermato che “…la diversità della fattispecie giustifica una applicazione diversa alle due tipologie di imprese che può condurre ad una modulazione di effetti per le imprese multiprodotto ed una applicazione rigida per le imprese monoprodotto…”.

Con riferimento alla riduzione del 75% della sanzione accordata ad Orsa Foam, il CdS, pur riconoscendo l’interesse giuridico di Olmo a contestare detta riduzione in quanto “…tertium comparationis rispetto alla sanzione subita..”, ha tuttavia respinto nel merito la relativa censura, riconoscendo la correttezza della valutazione dell’AGCM, “…in quanto basata su di una approfondita analisi della diversa situazione facente capo a [Orsa Foam]…” e sussistendo “...evidenti profilo di differenza, tali da giustificare il diverso esito favorevole alla Orsa…”.

Martina Bischetti
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Energia / Energivori e oneri generali di sistema - Il Consiglio di Stato conferma l’illegittimità della regolazione prevista dall’ARERA sulle modalità di riconoscimento delle agevolazioni per gli energivori che prelevano energia tramite una RIU

Con la sentenza n. 1874/2018 lo scorso 23 marzo il Consiglio di Stato (CdS) ha rigettato l’appello proposto dall’ARERA avverso la sentenza n. 878/2017 con cui il giudice di prime cure era intervenuto annullando l’art. 9 lett.b) della Delibera n. 539/2015, accogliendo il ricorso di Acciai Speciali Terni S.p.A. (AST). Tale disposizione prevede che le agevolazioni in favore delle imprese energivore in relazione ai punti di interconnessione di una Rete interna di utenza (RIU) con una rete pubblica siano applicate dall’attuale Cassa per i Servizi Energetici Ambientali (CSEA) a consuntivo con le modalità previste dall’art. 5 della Delibera n. 385/2014/R/eel (Delibera n. 385). La disposizione in parola è intervenuta ad integrare (con due nuovi commi) proprio l’articolo 2 della citata Delibera n. 385 modificando le modalità di applicazione delle agevolazioni alle imprese energivore collegate ad una RIU a partire dal 1 gennaio 2014 – quindi con effetto retroattivo – rinviando l’effettivo riconoscimento di tali agevolazioni spettanti per ciascun anno solo a seguito dell’aggiornamento dell’elenco delle imprese energivore cui la Cassa deve procedere nell’anno successivo sulla base dei dati dei consumi dell’anno precedente.

Prima di entrare nel merito della vicenda giudiziale, preme evidenziare gli elementi essenziali del meccanismo introdotto per mezzo della Delibera n. 539 e le differenze che intercorrono con la disciplina generale e che comportano un diverso trattamento per le imprese che prelevano energia elettrica da una RIU e quelle che prelevano la stessa da una rete pubblica. La disciplina generale contenuta nella Delibera n. 467/2013 prevede che le imprese energivore si vedano direttamente riconosciuti dall'impresa distributrice e dall'esercente la vendita le esenzioni dal versamento delle componenti tariffarie A e dell'AE salvo conguaglio, nell'anno successivo, a seguito dell’aggiornamento che la Cassa è chiamata ad eseguire dell’elenco delle imprese a forte consumo di energia, a valle del ricevimento dei dati di consumo effettivi per l’anno precedente. Al contrario, le imprese energivore che prelevano energia tramite una RIU (come AST) inizialmente devono versare le componenti tariffarie A e dell'AE – alla stregua di un soggetto non energivoro - salvo ricevere la restituzione di quanto versato, e non dovuto in quanto, appunto, imprese a forte consumo di energia, solo dopo che la Cassa l’anno successivo ha aggiornato l’elenco delle imprese a forte consumo di energia, a valle del ricevimento dei dati di consumo effettivi per l’anno precedente. Si desume il diverso ruolo del momento dell’aggiornamento in quanto da un lato può consistere in un mero conguaglio sulle agevolazioni che sono già state godute dai soggetti, dall’altro, solo con riferimento ai soggetti che prelevano da una RIU va a rappresentare il primo momento di godimento delle agevolazioni, mediante la restituzione di quanto versato medio tempore.

Avallando quanto sostenuto dal TAR Lombardia, il CdS dimostra come la disposizione in parola sia sprovvista di una portata interpretativa e che in ogni caso, laddove si volesse ammettere una opposta conclusione, AST è venuta a conoscenza della lesività del provvedimento solo in un momento successivo all’intervento dell’originaria Delibera n. 385/2014.

Per quanto riguarda il merito, ripercorrendo puntualmente quanto sostenuto dal TAR Lombardia, il CdS ha ritenuto non convincenti le argomentazioni dell’ARERA, volte a giustificare tale differenziazione di trattamento, basate principalmente sulla supposta “esistenza di una base normativa e sulla volontà di evitare che soggetti non energivori, allacciati alla RIU, possano avvalersi in modo indebito delle esenzioni in questione.” Al riguardo, il giudice afferma che “sembra mancare effettivamente un fondamento normativo specifico idoneo a giustificare una diversificazione di disciplina, come quella contestata in primo grado da AST, basata sulle modalità, di per sé sole, di prelevamento dell’energia elettrica – direttamente dalla rete pubblico oppure mediante una RIU – dal momento che la normativa pone a base della definizione di impresa energivora esclusivamente parametri relativi a livelli minimi di consumo e all’incidenza del costo dell’energia sul valore dell’attività di impresa, non considerando rilevante a questo fine la fonte di connessione alla rete elettrica”.

Inoltre, il CdS correttamente riconosce che non sussisteva alcun ostacolo nel garantire l’applicazione delle stesse modalità di esazione delle componenti tariffarie alle due tipologie di soggetti, avendo a disposizione la CSEA gli stessi dati, seppur sotto forma di bilancio energetico concludendo che “il rischio di finanziare indebitamente soggetti che, in quanto non energivori, non hanno diritto alle agevolazioni, sembra esistere in misura analoga sia per le imprese che prelevano direttamente dalla rete pubblica e sia per quelle che prelevano tramite una RIU, avuto riguardo alle modalità di applicazione delle agevolazioni relative agli oneri generali di sistema impiegate per le imprese energivore che prelevano dalla rete pubblica”.

Parimenti, il giudice pronunciandosi sulla ragionevolezza dell’invocata parità di trattamento conferma che: “…dato che il riconoscimento immediato delle agevolazioni a una impresa che preleva energia direttamente da una rete pubblica si basa sulla presunzione che la impresa medesima abbia mantenuto la intensità di prelievo che le aveva consentito di essere qualificata energivora l'anno prima, non sembrano esservi ostacoli insuperabili a che tale presunzione operi anche per le imprese che prelevano energia da una RIU […], fatti salvi i conguagli in sede consuntiva.”

Su tali basi, il CdS, confermando in toto la sentenza di primo grado conclude che gli elementi di differenziazione previsti tra le due modalità di prelevamento dell’energia elettrica non rappresenta un criterio sufficiente a dettare una disciplina differenziata a solo pregiudizio degli energivori che prelevano energia da una RIU.

Gloria Panaccione
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Legal news / La Corte di Giustizia si pronuncia sull’applicazione del principio del ne bis in idem tra sentenze penali e sanzioni amministrative

Con tre decisioni dello scorso 20 marzo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CdG) si è pronunciata sulla compatibilità di alcune norme italiane con il principio del ne bis in idem, così come previsto a livello europeo ex art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, interpretato ai sensi dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Nella causa C-524/15, la questione pregiudiziale riguardava l’interpretazione della normativa nazionale italiana - per cui è possibile avviare procedimenti penali nei confronti di un soggetto che non ha versato l’IVA nei termini di legge e che per tale infrazione sia già stato destinatario di una sanzione amministrativa – rispetto al principio riconosciuto anche a livello europeo secondo il quale nessuno può essere condannato in uno Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito della pronuncia di una sentenza penale definitiva in conformità alla legge e alla procedura penale di tale Stato.

La CdG ha ricordato come, per la risoluzione del quesito in esame, il giudice del rinvio debba basare la propria decisione sulla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, sulla natura dell’illecito (e sulla finalità repressiva – e non solo risarcitoria - della sanzione connessa), oltre che sul grado di severità della sanzione potenzialmente comminabile nei confronti del soggetto interessato.

Nel corso del giudizio, è stato ricordato come sussistano profonde differenze tra i due iter procedimentali (peraltro, attribuiti alla competenza di due distinte autorità), tra cui la necessità per il procedimento penale di ricercare e valutare l’elemento psicologico, di norma irrilevante ai fini dell’irrogazione di una sanzione amministrativa (seppure di natura sostanzialmente penale, come la Corte ha ritenuto essere non solo con riferimento a quelle irrogate dalle autorità amministrative indipendenti, in ossequio ai principi derivanti dalla giurisprudenza oramai consolidata in materia, ex multis cfr. caso Grande Stevens e, ancor prima, Menarini, ma anche quelle irrogate da altre autorità, come ad esempio l’Agenzia delle Entrate).

La CdG ha sostenuto che, in considerazione dell’importanza dell’obiettivo che si pone la normativa in materia di evasione fiscale, un cumulo di procedimenti e sanzioni di natura penale può essere giustificato ove questi, perseguendo il medesimo obiettivo comune, si concentrino su aspetti complementari e differenti tra loro (tali da giustificare un doppio binario sanzionatorio), e che, nel complesso, si limitino a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato in questione (valutazioni che, in ogni caso, spettano al giudice del rinvio).

La vicenda all’origine della causa C-537/16, invece, riguardava il reato di manipolazione del mercato commesso da Stefano Ricucci con riferimento ai titoli di RCS MediaGroup S.p.A., che è stato oggetto di sanzione a parte della Consob, nonché di condanna (da ultimo, estinta per indulto) a seguito di procedimenti penali.

Nonostante il giudice del rinvio abbia osservato che, di norma, nell’ordinamento giuridico italiano, il principio del ne bis in idem non si applica ai rapporti tra sanzioni penali ed amministrative, nel caso di specie (a differenza di quanto statuito nella causa C-524/15) è stato ritenuto che “il fatto di proseguire un procedimento di sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale ai sensi di tale articolo 187 ter eccederebbe quanto strettamente necessario per conseguire l’obiettivo di cui al punto 46 della presente sentenza, nei limiti in cui la condanna penale pronunciata in via definitiva, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

La CdG è pervenuta sostanzialmente alle medesime conclusioni anche nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, anch’esse in materia di abusi di mercato (abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato). Nel caso di specie, peraltro, la sentenza penale aveva accertato in via definitiva l’assenza di prova dei fatti contestati, per cui la CdG, anche tenendo conto del principio dell’autorità di cosa giudicata, ha concluso che la prosecuzione di un procedimento finalizzato all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non può ritenersi compatibile con il principio del ne bis in idem (in quanto sproporzionato nelle modalità di perseguimento dell’obiettivo di tutela dei mercati finanziari), laddove vi sia una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha dichiarato l’assenza dell’infrazione.

Le sentenze in commento rappresentano indubbiamente una nuova tappa nel dibattito sull’applicazione del principio del ne bis in idem tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, i cui sviluppi potrebbero investire (ad esempio, nei casi di turbativa d’asta) prossimamente anche l’ambito antitrust.

Filippo Alberti